Pensare Globale e Agire Locale

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lunedì 19 marzo 2012

ITALIA: Marco Biagi, sull’art. 18 e contratti precari lo ammazzano di nuovo

L’ansia che cresceva di giorno in giorno da quando, nel 1999, le Nuove Br avevano ucciso Massimo D’Antona. La scorta che gli era stata tolta alla fine del 2001. Quelle cinque lettere d’allarme ignorate da tutti. Marco Biagi rimase solo e la morte lo attendeva puntuale davanti casa, in via Valdonica, sotto i portici della sua Bologna. A dieci anni esatti da quell’assassinio, il pensiero del giuslavorista che fu consigliere al ministero del Lavoro con Antonio Bassolino e poi consulente di Roberto Maroni allo stesso dicastero, è come un tappeto che copre il tavolo al quale siedono governo e parti sociali che discutono della riforma del mercato occupazionale.
LE IDEE TRADITE – L’idea dell’impiego agganciato alla produttività, la protezione attiva che predilige il lavoratore rispetto al posto di lavoro, la riforma degli ammortizzatori mai attuata. Le sue elaborazioni sono tornate di strettissima attualità e l’impianto iniziale del ministro del Welfare Elsa Fornero non si discosta poi molto dai concetti di quel Libro bianco che la legge 30 ha solo in parte ripreso. Certo, bisognerà ora arrivare a un compromesso con sindacati e imprese e martedì potrebbe essere una giornata di svolta. Ma guai a pensare che tutti i problemi siano appianati. Comunemente si dice che l’errore principale della legge 30 sia stato quello di moltiplicare le forme di lavoro atipiche che generano precarietà, forme che oggi si punta a semplificare. Tuttavia Biagi non avrebbe mai voluto che le imprese ne abusassero come poi è successo, non avrebbe voluto che tutto questo avvenisse sulla pelle dei lavoratori e non concepiva una riforma dei contratti disgiunta da una revisione altrettanto profonda delle tutele, progetto colpevolmente dimenticato soprattutto dai governi che, una volta morto, lo hanno innalzato strumentalmente a vessillo di innovazione tradita.

LA QUERELLE SULL’ARTICOLO 18 – Prendiamo l’articolo 18, tema su cui al tempo infuriò lo scontro tra l’esecutivo Berlusconi e la Cgil di Sergio Cofferati: Biagi era favorevole a una revisione della reintegra o magari a una sospensione sperimentale per i nuovi occupati e in alcune aree specifiche del Paese. Ma non ne fece mai una questione tecnica dirimente. Era uno studioso, un professore e vedeva che attorno a quell’istituto si era generata la peggiore canea politica. Il 15 gennaio del 2002, poche settimane prima di morire, presentò il Libro bianco alla Consulta per i problemi sociali e del lavoro della Cei. E subito disse: «Non ho volutamente parlato della delega sul mercato del lavoro per questioni di tempo, però mi consentirete amabilmente di contestare che in queste deleghe si parli solo dell’articolo 18. Visto che, con mia sorpresa, noto una fortissima attenzione critica nei confronti di questi provvedimenti, bisogna che da parte mia ricordi ai miei cortesi interlocutori che su 47 pagine l’articolo 18 è una mezza pagina».
IL VALORE DELL’APPRENDISTATO – Biagi era un riformista. Socialista e cattolico insieme. Da giurista comparatista, stava molto attento a ciò che accadeva all’estero. E conosceva bene, ad esempio, pregi e limiti di un sistema come quello della flexecurity danese. Fu lui il primo a credere nell’apprendistato come strumento chiave, se ben riformato, per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Oggi questo concetto è stato ripreso dalla riforma in discussione ed è pacificamente accettato da tutte le parti sociali. Fornero nei giorni scorsi ha ricordato il giuslavorista bolognese e ha detto: «C’è molto di Biagi in questa riforma del mercato del lavoro, spero che lui possa guardarla con senso di orgoglio e possa considerarla un po’ come sua».
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