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lunedì 16 aprile 2012

Norvegia: I miti del caso Breivik

Il 16 aprile si è aperto a Oslo il processo all’autore della strage di Utøya. Per la stampa internazionale il massacro ha segnato la "perdita dell'innocenza" del paese, ma la realtà era diversa da tempo.
Sven Egil Omdal  16 aprile 2012 Stavanger Aftenblad Stavanger

Ben prima che gli psichiatri avessero avuto accesso alla cella nella quale è rinchiuso Anders Behring Breivik, la nostra psiche nazionale era stata sviscerata dalla stampa estera. Tranne qualche eccezione, i giornalisti sono  giunti alla conclusione che la Norvegia ha perduto per sempre l’innocenza. Il paradiso attaccato il 22 luglio non può essere risuscitato.
Da una dettagliata analisi della copertura dell’attentato terroristico  da parte dei giornali europei e americani emerge che non c’è definizione più utilizzata di “innocenza perduta”. La prima pagina di  Le Monde del 24 luglio recitava “La Norvegia ha perduto l’innocenza”. Un editoriale dell’Observer affermava che “la Norvegia è abituata a considerarsi il paese più sano, più ricco e più pacifico al mondo”. Quell’innocenza e la commovente apertura egualitaria erano andate in frantumi una volta per tutte.
Questa distaccata concezione degli osservatori stranieri, però, era soltanto un’illusione. Quei  reportage di velata autodiagnosi e quei discorsi sull’ “introspezione” erano soltanto formule vuote, frottole. E questo perché tutti i giornalisti stranieri hanno utilizzato lo stesso metodo, quello dello specchio: a essere veicolati nei loro articoli non erano i luoghi comuni degli stranieri sulla Norvegia, bensì proprio i nostri.
Quando i giornalisti lavorano in paesi dei quali ignorano lingua e cultura fanno ricorso agli interpreti,  che costituiscono la categoria più sottovalutata dall’opinione pubblica mondiale. Gli interpreti offrono indicazioni essenziali per comprendere un conflitto, scegliere le fonti e le parole da utilizzare, pur rimanendo in buona parte invisibili. Quando è toccato a un paese sconosciuto come la Norvegia, del quale si parlava pochissimo, diventare il teatro di un avvenimento di risonanza mondiale, i giornali hanno optato per il seguente criterio: alcuni scrittori di fama mondiale come Jan Kjærstad, Anne Holt e Jostein Gaarder hanno fatto da interpreti culturali prestandosi a interviste, mentre Jo Nesbø è stato pregato di scrivere un articolo distribuito poi ai più importanti giornali di vari continenti.
Sul New York Times, su Folha do Brasil, sullo spagnolo El Mundo, sul danese  Jyllands-Posten e sul tedesco Spiegel, Nesbø ha spiegato come il periodo antecedente al 22 luglio fosse appartenuto a  “paese diverso”, un paese nel quale regnava un “consenso generale”, e nel quale le discussioni vertevano soltanto sul modo  migliore di perseguire gli obiettivi che avevano ottenuto  il consenso generale, a destra come a sinistra. “Fino al 22 luglio 2011, l’immagine che la Norvegia aveva di sé stessa era quella di una vergine: una natura incontaminata dall’uomo, una società risparmiata e immune dai mali della civiltà”.
Jan Kjærstad ha accompagnato il giornalista dell’Observer da Bølgen & Moi, uno dei migliori ristoranti di Oslo e lì gli ha mostrato il tavolo dove ha l’abitudine di sedersi l’erede alla corona. In quel preciso istante il principe Haakon Magnus ha fatto il suo ingresso, come in un romanzo, e ha iniziato a chiacchierare con Kjærstad e il reporter britannico che pareva cascare dalle nuvole.
Solo una tragedia
In un solo caso ho notato un tentativo di resistere a questo sentire norvegese che Breivik aveva voluto mandare in frantumi nel nostro sistema sociale. Sul Guardian il giornalista Simon Jenkins martedì 26 luglio ha scritto che “la tragedia norvegese è esattamente questo: una tragedia. Non significa niente e non le si deve dare a tutti i costi un significato. Anders Breivik non ci dice assolutamente niente della Norvegia. Non ci dice nulla di terrorismo o di controllo delle armi o di come lavora la polizia o che cosa sono i campi estivi politici. Palesemente, è molto malato”.
Oggi i giornalisti tornano in Norvegia per vedere come l’apparato giudiziario del paese tratterà colui che ha annientato questo verginale paradiso. Alcuni di loro forse hanno avuto modo di leggere cosa ha scritto il norvegese Martin Sandbu sul Financial Times due giorni dopo Utøya: “La Norvegia ha perduto da tempo la propria innocenza”. Il nostro presunto distacco dai mali del mondo era un “velo di circostanza”, creato di proposito da alcuni esponenti politici che vogliono tenere nascosto che la Norvegia – uno dei paesi fondatori della Nato e un alleato tradizionale degli Stati Uniti – di fatto conosce da vicino la violenza. “I paesi nordici spesso sono percepiti come più tolleranti nei confronti degli immigrati rispetto agli altri paesi dell’Europa del Nord. Ma può anche accadere che i governi molto semplicemente riescano a camuffare meglio la loro ostilità”, aggiungeva Sandbu.
Ad essere andato in frantumi il 22 luglio  forse non è il paradiso, ma soltanto lo specchio che ci eravamo costruiti. (Traduzione di Anna Bissanti)

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