Caroline
de Gruyter 14
maggio 2012 nrc handelsbland Rotterdam
Non è possibile che
la crescita economica salti fuori, come per magia, da un cilindro. E tanto meno
senza soldi per gli investimenti. È per questa ragione che Daniel Gros è
stupefatto da come i politici europei – e il nuovo presidente francese in testa
– stiano ripetendo all’infinito una parola sola: crescita.
Secondo l’economista
tedesco del think-tank di Bruxelles Ceps, quello su “austerità contro crescita” è un falso
dibattito, che non fa compiere nemmeno un passo in più in direzione della
soluzione alla crisi dell’euro. Il vero dibattito, dice, dovrebbe vertere sulle
banche, in particolare quelle dell’Europa del sud che stanno andando parecchio
peggio di ciò che si presume.
“Le banche greche e
spagnole sono sedute su una montagna di debiti sempre più colossale”, spiega
Gros. “Soltanto l’Europa potrà salvarle: il governo greco e quello spagnolo
sono troppo deboli. Questo è un problema europeo di gravità enorme”.
L’anno scorso, dopo
forti pressioni politiche, le banche europee hanno accettato gli haircut, vale
a dire la cessione del debito dello stato greco. Da allora quelle stesse banche
si stanno ritirando dalle regioni meridionali d’Europa, prima che arrivino i
prossimi haircut. Spagna, Italia e Portogallo sono stati abbandonati in massa
dagli investitori stranieri. In Grecia è già iniziata la fase successiva:
perfino i greci stanno depositando all’estero i propri soldi. Secondo Gros, la
fuga dei capitali all’estero ha assunto proporzioni enormi. “Quattro, cinque,
sei miliardi di euro al mese. È un processo inarrestabile”.
Questo fenomeno va di
pari passo con un altro sviluppo altrettanto pericoloso: a causa dell’abbandono
da parte delle banche dell’Europa del nord, le banche dell’Europa del sud
precipitano sempre più in un mare di debiti. E questo perché i medesimi titoli
di stato – dei quali si sbarazzano gli investitori stranieri – sono
legittimamente acquisiti dalle banche dell’Europa del sud. Lo fanno sotto le
pressioni dei loro governi, ma anche perché ciò permette loro di guadagnare
qualcosa. In cambio di questo favore, infatti, i governi concordano a loro
volta nuovi prestiti con le banche, a tassi di interesse vantaggiosi per queste
ultime.
Tassi molto
vantaggiosi. L’inverno scorso la Bce ha accordato crediti a buon mercato per
mille miliardi di euro al fine di mantenere lo scambio di prestiti europeo. Le
banche dell’Europa meridionale utilizzano assai volentieri questi crediti a un
tasso dell’1 per cento per concedere prestiti ai governi che fruttano oltre il
6 per cento. Un atto di patriottismo che permette loro di fare bei soldi.
Questa parrebbe una
soluzione. In realtà innesca un meccanismo perverso, in virtù del quale le
banche e i governi diventano a tal punto interdipendenti da indebolirsi a
vicenda sempre più.
Per Gros “le banche
greche sono completamente rovinate”. Se questo pare un problema nazionale, in
verità è un’illusione ottica. E infatti: che cosa accadrebbe qualora
all’improvviso le banche del sud non rimborsassero più (per meglio dire non
potessero più rimborsare) i prestiti ricevuti dalla Bce? “A causa dell’euro
siamo tutti nello stesso sistema”, spiega Thierry Philipponnat, del gruppo di
pressione Finance Watch.
La Bce siamo noi.
Indirettamente, ma siamo tutti noi. Se la situazione degenererà in Europa del
sud, altri paesi dovranno correre in suo aiuto, e soltanto per salvare l’unione
monetaria europea. Per lo stesso motivo la Bce è esposta a forti pressioni da
parte della Germania e dei Paesi Bassi che vogliono che essa smetta di erogare
prestiti a bassi interessi. Il mercato finanziario interno costituisce il
presupposto stesso dell’euro. Una fuga di capitali da sud verso nord nuoce
gravemente a questo contesto. “L’integrazione finanziaria dell’Europa arretra
per la prima volta dall’inizio degli anni ottanta”, spiega Ignazio Angeloni,
consigliere della Bce a Francoforte.
Fare
e disfare
I francesi hanno una
parola splendida per indicare ciò: détricotage (disfare un lavoro a
maglia). Le banche si trincerano dietro le loro frontiere, come quando da un
lavoro a maglia si fanno cadere alcune maglie: per essere più forti in un dato
paese non accordano più molti prestiti a un altro. Le banche centrali sono più
inflessibili al nord che a sud.
“La geografia ha
acquisito importanza”, osserva il lobbista Philipponnat. Un banchiere londinese
se ne è accorto anche lui di recente, in occasione della visita di una
delegazione cinese. La prima domanda che gli hanno rivolto è stata: “Come
possiamo distinguere una banconota in euro greci da una in euro tedeschi?”.
Molti affermano che
soltanto un’unione bancaria europea potrà liberare le banche e i governi da
questa morsa soffocante. Un’unione bancaria con un fondo di salvataggio in extremis
rifornito dalle banche stesse, così che i governi non siano più obbligati a
controbilanciare i fallimenti. Questo permetterebbe di risolvere l’attuale
dilemma del “too big to fail” (banche troppo grandi per poter fallire), grazie
al quale le grandi banche possono permettersi di tutto perché sono sicure che
saranno salvate in ogni caso dal governo qualora le cose si mettessero male. Se
invece anche loro soffriranno, valuteranno i rischi in modo diverso.
L’Europa sta girando
su sé stessa. Dato che i governi non vogliono un sistema europeo forte di
regolamentazione finanziaria, il rischio per il contribuente di vedersi
rifilare i conti europei sotto forma di interventi di bailout che divorano
miliardi, continua ad aumentare. E a quel punto restano pochi soldi per
incentivare la crescita economica, che François Hollande sta attualmente
promuovendo con tanta energia.
“Il
pericolo più grande per la stabilità finanziaria dell’Europa è il fatto che
alcuni paesi della zona euro sono finanziati da banche che, in caso di
fallimento, dipendono esse stesse dai governi ai quali prestano capitali” ha
spiegato di recente Philipponnat in occasione di una conferenza organizzata
dalla Bce. “E noi tutti sappiamo che così le cose non potranno mai funzionare”.
(Traduzione di Anna Bissanti)
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