I greci non sono gli unici in Europa a dover fare i
conti con l’austerity, ma si sentono vittime di un complotto tedesco. Dopo anni
di aiuti sprecati l’Ue deve costringerli a mettere finalmente mano alle
riforme.
Jean
Quatremer 31 maggio 2012 COULISSE DE
BRUXELLES
Lo scorso fine settimana la direttrice generale
dell'Fmi Christine Lagarde è stata probabilmente troppo brutale nella sua
intervista al Guardian, quando si è stupita del senso di ingiustizia provato
dai greci. Per lei la Grecia non deve essere troppo compatita: “Penso più ai
bambini di una scuola di un piccolo villaggio del Niger che hanno due ore di
lezione al giorno, che devono spartirsi una sedia in tre e che cercano con
entusiasmo di avere accesso all'istruzione. Penso a loro continuamente perché
sono convinta che abbiano più bisogno di aiuto della popolazione di Atene”. Per
Lagarde “i greci dovrebbero cominciare ad aiutarsi fra di loro”, e per fare
questo dovrebbero “pagare tutti le loro tasse”.
Al di là della violenza di queste affermazioni,
decisamente imbarazzanti a tre settimane dalle nuove elezioni legislative
greche, la direttrice generale dell'Fmi mette il dito sulla piaga. Senza dubbio
gli investitori hanno fatto male a prestare capitali senza fare attenzione per
più di 20 anni alla Grecia, ma hanno pagato cara questa disattenzione
acconsentendo all’annullamento di più del 70 per cento dei loro crediti (una
buona parte di questi crediti riguarda gli stessi investitori greci, le banche,
le assicurazioni e i fondi pensione), cioè 105 miliardi di euro. Si tratta
della più grande ristrutturazione del debito della storia del capitalismo (per
l’Argentina la cancellazione è stata di “soli” 88 miliardi di dollari).
Per solidarietà, poiché la caduta della Grecia
rischierebbe di far crollare la moneta unica, la zona euro e l’Fmi hanno
prestato complessivamente ad Atene 240 miliardi (anche se l’ammontare totale di
questa somma non è stato ancora completamente versato). A questa cifra si
devono aggiungere gli (almeno) 50 miliardi di obbligazioni di stato greche
ricomprate sul mercato secondario (quello della rivendita) dalla Banca centrale
europea. In totale 290 miliardi di euro, circa due volte e mezzo l’ammontare
del bilancio comunitario annuale, per un paese di 11 milioni di abitanti che
vale appena il 2 per cento del pil dell’Ue. Nella sua storia l’Fmi, che da solo
ha prestato un terzo di questa somma, non ha mai versato tanto denaro a un solo
paese.
Ricordiamo che questa solidarietà non è recente: dalla
sua adesione all’Unione, nel 1981, e soprattutto dopo la creazione dei fondi
strutturali (aiuti regionali) nel 1988, la Grecia ha ricevuto ogni anno fra il
3 e il 4 per cento del suo pil in aiuti europei. Senza contare che dal 2002,
quando è entrato a far parte della zona euro, il paese ha potuto prendere a
prestito sui mercati ai tassi di interesse tedeschi.
Ma che cosa ha fatto di questo afflusso di capitali
senza precedenti? Quello che è certo è che non se ne è servita per sviluppare
il paese, ma per alimentare una clientela politica e per sostenere i consumi
(la Grecia era uno dei principali mercati europei per le automobili di lusso
tedesche). Si capisce quindi la crescente irritazione degli europei e dell’Fmi
nei confronti di quella che considerano come ingratitudine da parte di un paese
che è sfuggito di poco a una bancarotta che avrebbe avuto effetti molto più
gravi della severa cura di rigore che subisce attualmente.
Il piano di aggiustamento indica soprattutto le
riforme che la Grecia deve fare per costruire uno stato. La sua lettura è
edificante: sono passati in rassegna tutti i settori dell'amministrazione, del
sistema sanitario, della fiscalità, del diritto, delle gare d’appalto, e la
conclusione è che la Grecia dispone di uno stato meno efficiente della Turchia.
Il problema è che la Grecia non fa bene i suoi
compiti, sia per incompetenza di gran parte del personale politico e
dell’amministrazione sia per la resistenza di coloro che hanno tutto da perdere
dalla realizzazione di queste riforme. Il primo piano di rigore negoziato con
l’Fmi e l'Ue nella primavera 2010 non è mai stato applicato, come ha
riconosciuto lo stesso governo Papandreou, e il secondo è bloccato dopo le
elezioni del 6 maggio scorso.
La legge che apre alla concorrenza più di 150
professioni, votata un anno fa, non è stata ancora applicata per mancanza di
volontà amministrativa. Creare un’impresa è ancora complicato. Il catasto non è
stato ancora realizzato (eppure l’Unione lo chiede da 20 anni e ha anche pagato
per aiutare i greci a farne uno). E quando il fisco fa il suo lavoro, la
giustizia corrotta, lenta e inefficiente non fa il suo e questo permette agli
evasori di farla franca. Per il 2009 si ritiene che l’evasione fiscale sia
stata tra 15 e 20 miliardi di euro, cioè tre quarti del deficit di bilancio
dell’epoca. In altre parole l’economia sommersa (fra il 30 e il 40 per cento
del pil) rimane ancora molto florida.
In Grecia ci sono persone che soffrono, questo è
innegabile: la riduzione degli stipendi e delle pensioni, la recessione (la
Grecia ha perso il 30 per cento della sua ricchezza nazionale, e la perdita di
questa ricchezza, anche se ottenuta a credito, rimane comunque molto dolorosa),
sono una triste realtà. Ma l’atteggiamento di questo paese si può paragonare a
una vera e propria scelta nazionale: si preferisce conservare un sistema
clientelare (i partiti contrari a questo sistema non hanno superato la soglia
del 3 per cento) e si vota per dei partiti che promettono di poter ottenere
l'aiuto internazionale senza fare sacrifici.
Altri paesi sono sottoposti a cure di rigore
altrettanto dure (il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna e l’Italia) ma nessuno li
sente protestare. La differenza? La Grecia ha sempre avuto una tendenza alla
vittimizzazione, e inoltre pensa di avere diritto a un trattamento di favore
perché è la culla della civiltà occidentale. Come se Roma invocasse Cicerone o
Augusto quando si chiede all’Italia di riformare il suo mercato del lavoro o di
lottare contro la mafia.
Fondo perduto
Ma allora, che fare? L’Europa non ha altra scelta che
continuare ad aiutare la Grecia, che rischia di far colare a picco la moneta
unica. Ma bisogna ricordare ai greci che il piano di aggiustamento è stato
accettato dal governo legittimo della Grecia e ratificato dai 17 parlamenti
nazionali della zona euro (compresa la Vouli, il parlamento greco), e questo
dovrebbe impedire di parlare di un “diktat tedesco”. Inoltre una denuncia
unilaterale di questo piano mostrerebbe che non si può dare fiducia alla Grecia
e che una nuova maggioranza potrebbe non sentirsi legata agli impegni presi in
nome del paese. Una vittoria della sinistra radicale significherebbe la fine di
quella spinta federale peraltro necessaria alla sopravvivenza dell’euro.
È molto probabile che gli europei non rivedranno più
il denaro che hanno prestato alla Grecia. Ma questo abbandono dei crediti non
deve essere accettato a qualunque condizione: la Grecia, che lo voglia o meno,
deve cambiare e riformarsi in profondità. Rinunciare ai nostri crediti in modo
incondizionato come vorrebbero alcune anime belle, e si tratta di un sacrificio
che pesa su tutti gli europei, significherebbe la certezza di dover di nuovo
correre in aiuto dei greci fra 20 anni. La “botte delle Danaidi” è un’eredità
della Grecia antica di cui faremmo volentieri a meno.(Traduzione di Andrea
De Ritis )
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