Nikolaus Piper 26 giugno 2012 SUDDEUTSCHE ZEITUNG Monaco
Il futuro dell’euro non dipende
dall’Italia. E non dipende neppure dalla Spagna, dal Portogallo, da Cipro. E
nemmeno dalla Grecia. Dipende solo dalla Germania, e da nessun altro, e sarà la
Germania a decidere se la moneta unica dovrà continuare a vivere, e come.
Berlino è oggi il centro nevralgico della crisi. Il ministro delle finanze e la
Bundesbank ne sono sicuramente consapevoli, ma la questione è ben lontana
dall’essere discussa pubblicamente con la necessaria franchezza. Soltanto la
Germania può accollarsi la maggior parte delle spese legate al salvataggio
dell’euro. Resta da capire se i tedeschi lo vogliono e per quanto tempo
potranno ancora farlo.
Prima dell’ennesimo summit europeo
che si prospetta ancora una volta difficile, i responsabili politici e
l’opinione pubblica tedesca hanno l’occasione di fare a freddo i loro calcoli:
quanto ci costerà ancora il salvataggio dell’euro dal punto di vista economico
e politico? E quanto ci costerebbe invece un fallimento, ovvero la
disintegrazione della zona euro, a prescindere dalla forma che assumerà? E in
entrambi i casi, quali rischi si concretizzerebbero nei bilanci delle banche e
della Bundesbank? Quali sarebbero le ripercussioni di un fallimento per lo
status della Germania in Europa? La cancelliera deve continuare a fare
l’addomesticatrice d’Europa?
Gli osservatori extra-europei hanno
fatto notare che i tedeschi conducevano il dibattito sull’euro da un punto di
vista del tutto particolare, quello morale, chiedendosi per esempio con
stupore: “Come è possibile che siamo arrivati a pagare affinché i greci vadano
in pensione a 45 anni?”. Le domande di questo tipo sono facili da capire, ma
per nulla pertinenti: nessun euro tedesco è stato ancora versato nel sistema
pensionistico greco. Sarebbe bene, invece, che adesso il dibattito si facesse a
un livello economico e costituzionale.
Il governo tedesco deve analizzare
ciò che ha il diritto e la capacità di fare per salvare l’euro. Questi limiti
sono definiti sia dalla costituzione tedesca sia dalla sua potenza economica e
opinione pubblica. I cittadini hanno paura per i propri soldi e percepiscono
sempre più spesso come una minaccia i diversi piani di salvataggio dell’euro.
È evidente che la strategia adottata
finora da Angela Merkel è fallita su un punto assai importante: dal 2010 la
cancelliera ha offerto appena quanto era sufficiente a salvare l’euro per
garantirne la sopravvivenza. Ha cercato di guadagnare tempo, con la
preoccupazione più che comprensibile di mantenere il controllo, per obbligare i
suoi partner alle riforme.
Ma la crisi non è finita, anzi:
continua a costare sempre di più e la paura di veder esplodere una nuova crisi
finanziaria mondiale ancora peggiore dell’attuale sta crescendo. Il fatto che
l’agenzia Moody’s abbia ridotto, talora con grande severità, il rating di
quindici banche internazionali è un segnale d’allarme. La battaglia finale
dell’euro è in corso da tempo.
Condivisione
dei rischi
Ormai la disgregazione dell’unione
monetaria è una possibilità con la quale bisogna fare i conti, nel vero senso
della parola. Le sue conseguenze, dall’ottica tedesca, non sarebbero soltanto
il nuovo corso dell’euro nordico o del nuovo marco tedesco, a seconda del nome
che si deciderà di dare a questa moneta derivata il cui valore balzerebbe a
razzo in modo incontrollato: oltre a ciò sarebbe difficile scongiurare una
depressione mondiale e oggi non si può che fare congetture sul futuro dell’Ue
nel suo insieme. Alcuni forse auspicano una fine tremenda per l’euro in questi
giorni, ma è impossibile non chiedersi se hanno un’idea dell’enorme portata che
assumerebbe tale orrore.
Il salvataggio dell’euro costerà
molto caro alla Germania in ogni caso, come del resto alla Francia, all’Italia
e ad altri paesi ancora. Le proposte dell’Fmi, dei paesi del G-20 e di vari
economisti in sostanza si riducono a una medesima cosa: tutti gli stati della
zona euro devono condividere almeno in parte i rischi rappresentati dai loro
sistemi bancari e dai loro prestiti pubblici. Gli stati risparmiatori, come
Germania e Paesi Bassi, dovranno garantire i conti spagnoli, mentre i
contribuenti francesi e tedeschi dovranno garantire il budget di Roma, Madrid e
altre capitali.
Difendere l’euro in modo attendibile
sarebbe impossibile senza una garanzia comune europea, quanto meno limitata, e
per questo occorre istituire rapidamente una politica bancaria europea. Perché
mai così tante banche europee sono sottocapitalizzate, a differenza delle loro
omologhe americane? Perché non esiste un ente europeo che le costringa a
dotarsi di riserve sufficienti.
Per l’euro, i tedeschi possono
dunque scegliere tra il male e il peggio: devono decidersi a scegliere il male,
e farlo rapidamente. (Traduzione di Anna Bissanti)
Commento
Una visione dell’Europa
“alla francese”
Mercoledì sera Angela
Merkel dovrebbe incontrare François Hollande all’Eliseo, per un tentativo in
extremis di smussare le divergenze tra Parigi e Berlino prima del Consiglio europeo
del 28 e 29 giugno.
Su Les Echos,
Dominique Moïsi s’interroga sul rapporto di forze tra questi due partner:
La Germania fino a
ieri era percepita come il motore dell’ideale europeo. Come è possibile che
oggi ne sia considerata il freno, tale da rischiare di portare l’Europa
all’implosione con la propria rigidità e la sua certezza assoluta di essere
dalla parte della ragione? Come spiegare questa trasformazione radicale di
percezione, o forse addirittura della realtà tedesca?
Ricordando che per
tradizione l’Europa è stata per la Francia “un moltiplicatore di influenza” e
che la Germania vedeva nella realizzazione dell’edificio europeo una
“protezione da un eventuale ritorno dei propri demoni interni”, il politologo
constata che
quando oggi Berlino
parla di Europa, lo fa ‘alla francese’, non più ‘alla tedesca’. Per la Germania
l’Europa non è più un baluardo a difesa dai suoi ‘lati oscuri’, ma è il
prolungamento di se stessa per mezzo di un federalismo che le è naturale.
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