Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


domenica 24 giugno 2012

ITALIA - Università dell'Antimafia, il simbolo negato

La burocrazia blocca il progetto.
di Marco Todarello

da Reggio Calabria. Era un progetto ambizioso e innovativo: un’università in cui studiare i segreti, i meccanismi e le strategie dei clan mafiosi per formare la futura classe dirigente alla lotta alla ‘ndrangheta.
UN PIANO DA 3 MILIONI. Un progetto anche simbolico, perché concepito negli immobili confiscati al clan Mancuso di Limbadi, piccolo centro del Vibonese, e sostenuto anche dall’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni che alla sua realizzazione aveva destinato 3 milioni di euro del Piano operativo nazionale (Pon) Sicurezza 2007-2013.
L'OSTACOLO «BUROCRATICO». Difficile a credersi, eppure Riferimenti, associazione civile antimafia fondata dal giudice Antonino Caponnetto, che nel 2009 ha avuto l’assegnazione della villa confiscata in cui sarebbe dovuta nascere l’Università dell’Antimafia, ha trovato sulla sua strada un ostacolo inaspettato. L'immobile è circondato da un terreno non confiscato e, quindi, inutilizzabile. Circostanza che ha bloccato di fatto l’avvio dei lavori.
PROBABILI PRESSIONI DEI CLAN. Quello che sembrava un semplice benché paradossale intoppo burocratico ha però messo a nudo una possibile quanto scottante verità. «Dietro la mancata confisca del terreno», dice a Lettera43.it la presidente di Riferimenti Adriana Musella, «ci potrebbe essere la pressione su alcune istituzioni locali da parte di qualche capobastone del clan Mancuso. E ho gli stessi dubbi circa lo slittamento del progetto, che mi fu pure chiesto di cambiare escludendo la villa in questione».
«L'ANTIMAFIA SI FA A VOCE ALTA». Adriana è la figlia di Gennaro Musella, l’ingegnere ucciso dalla ‘ndragheta nel 1982 perché aveva denunciato le infiltrazioni mafiose tra gli imprenditori impegnati nella costruzione del porto di Bagnara calabra. «Ho imparato fin da giovane che l’antimafia si fa a voce alta», continua. E in questa storia ha deciso che vuole vederci chiaro.

«La forza della mafia sta nella connivenza con la zona grigia»


Una storia torbida, nella quale le inadempienze delle istituzioni locali (Musella però va oltre e ipotizza «possibili connivenze con i clan da parte dei funzionari dell’ufficio del Demanio e di quelli degli uffici giudiziari preposti alle confische al tribunale di Vibo Valentia») riportano a galla i problemi della gestione dei beni confiscati alle mafie e il ruolo dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc).
LE CARTE PROBATORIE. Per questo Musella ha chiesto di vedere le carte probatorie contenute nella sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, proprio per chiarire i motivi della mancata confisca del terreno intorno alla villa e le relative responsabilità. E nel caso in cui queste non venissero chiarite, l'associazione intende chiedere l'abbattimento della casa e il blocco del finanziamento destinato al progetto.
LA LINFA VITALE DELLA CRIMINALITÀ. «La vera forza della mafia non sta in un clan come quello dei Mancuso o nella sua manovalanza, ma nella connivenza di quella zona grigia fatta di burocrati, professionisti e altri pezzi delle istituzioni», denuncia. «È questa la linfa vitale della mafia. Del resto, al tribunale di Vibo Valentia la magistratura non ha di certo brillato per rigore ed eccellenza. Lo confermano i numerosi episodi di giudici allontanati o sottoposti a indagine dal Consiglio superiore della magistratura».

Musella: «L'Agenzia non ha poter


Magistrati, forze dell’ordine ed esperti da anni sostengono che per combattere la mafia è necessario aggredire il suo patrimonio. E il fallimento del progetto dell’Università dell’Antimafia di Limbadi riporta l’attenzione proprio sulle criticità di gestione di quell’enorme capitale.
CONFISCATI PIÙ DI 12 MILA BENI. A maggio 2012, tra immobili e aziende, il patrimonio dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni confiscati alla mafie ammontava a 12.221 beni. In testa c’è la Sicilia con 5.251 beni, seguita dalla Campania con 1.821 e dalla Calabria con 1.720.
LUNGAGGINI BUROCRATICHE. Da risolvere c'è innanzitutto un problema burocratico: in oltre 2 mila casi è trascorso troppo tempo tra sequestro e decreto di confisca, quando cioè lo Stato assegna l’immobile al Comune predisponendone la destinazione d’uso.
Un lasso temporale in cui sorgono problemi come il deterioramento, la necessità di nuovi sopralluoghi, autorizzazioni e ristrutturazioni, e il processo per il riutilizzo del bene finisce così per essere oneroso, difficile e a volte impossibile.
SCHIACCIATI DALLA DEMOCRAZIA. La stessa Agenzia, istituita nel febbraio 2010 e controllata dal ministero dell’Interno, secondo Musella, ha aggiunto nuova burocrazia a quella già esistente. Senza avere «alcun potere reale, al di là della routine di amministrazione e archivio, perché non può decidere sulle assegnazioni e le destinazioni d’uso degli immobili, che spettano ai Comuni».
Se si pensa alle decine di amministrazioni che in Calabria sono state sciolte per mafia, sorge quantomeno il dubbio circa la trasparenza delle assegnazioni dei beni.

I danni economici dello stallo delle confische


In un recente convegno sul ruolo della pubblica amministrazione nella gestione dei patrimoni sottratti alle mafie, tenutosi a Gioia Tauro, il procuratore aggiunto del tribunale di Reggio Calabria Michele Prestipino ha sottolineato il danno economico legato ai problemi di gestione delle aziende confiscate, senza risparmiare una frecciata alle banche.
I CREDITORI BATTONO CASSA. «Una volta che lo Stato entra nella gestione del bene confiscato alla criminalità», ha spiegato Prestipino, «si devono affrontare i creditori, come le banche, che appena arriva la pubblica amministrazione chiudono i rubinetti, nel tentativo di rientrare subito dall’investimento fatto. Al contrario di quanto avveniva quando l’azienda era nelle mani dei boss ai quali veniva garantito il credito».
IL BOICOTTAGGIO DEI BOSS. A dimostrazione di quanto sia delicato e complesso il tema è sufficiente ricordare la vicenda del discount Dico di Rosarno che, dopo la confisca al clan dei Bellocco con l’operazione Vento del nord, vide gli incassi passare da 40 mila a 20 mila euro settimanali. Il calo della clientela, dovuto alle pressioni dei boss indispettiti, colpì anche le famiglie dei lavoratori del supermercato che si trovarono a pagare il prezzo del passaggio dell’attività in mani legali con il rischio di perdere il posto.
OCCUPAZIONE A RISCHIO. Per questo, ha ricordato Prestipino, occorre fare uno sforzo anche per mantenere l’occupazione che in casi come questo è fortemente a rischio.
È evidente che solo creando una rete tra istituzioni, creditori e associazioni i beni confiscati alla ‘ndrangheta potranno realmente diventare produttivi, per l’economia e per la società.
Ma la strada, a quanto pare, è tutta in salita

Nessun commento:

Posta un commento