Thomas
Schmid 16 luglio 2012 DIE WELT Berlino
L’indebitamento è un’ipoteca sul
futuro. Per questo motivo il rigore costituisce l’elemento fondamentale di una
politica il cui obiettivo è la sopravvivenza di questa associazione di stati
flessibile e rigida al tempo stesso, che abbiamo deciso un po’ frettolosamente
di chiamare “Unione” europea. In alcuni paesi dell’Ue, questa priorità è
considerata come un diktat della Germania, cosa che non si può ritenere del tutto
infondata.
Ma a dire il vero bisogna anche
riconoscere che la nuova politica europea di rigore provoca diversi problemi.
Infatti nonostante i bei discorsi sull’Europa federale e sulla sua struttura
apparentemente caratterizzata dalla sussidiarietà, in realtà – e non solo in
tempi di crisi finanziaria – l’interesse generale dell’Unione può avere pesanti
conseguenze sulla sovranità. I nuovi governi in Grecia e in Italia non
sarebbero mai stati eletti senza la pressione dell’Ue. Ma fino a quando gli stati
europei non avranno assimilato il fatto che l’Ue è una comunità, gran parte
della popolazione recepirà queste misure – e non a torto – come una messa sotto
tutela e una privazione dei propri poteri. Cosa che può essere strumentalizzata
a livello locale.
Un esempio di questa situazione è
oggi la Romania,
un paese europeo che è stato autorizzato prematuramente a integrare l’Unione
anche se non offriva tutte le condizioni di stabilità necessarie. Qui è in
corso una lotta fra lo schieramento erede dell’era socialista, rappresentato
dal primo ministro Victor Ponta, e i conservatori riuniti intorno a Traian
Băsescu, l’ex presidente sospeso dal parlamento. In una Romania logorata dalla
corruzione, le diverse forze politiche considerano lo stato come un bottino da
spartire. E chi – come l’ex ministro della giustizia, la coraggiosa Monica
Macovei – vorrebbe mettere fine a questa situazione, non dispone degli
strumenti necessari per farlo.
Questa gente basa le proprie
speranze sull’integrazione della Romania nell’Ue e sul divieto da parte di
quest’ultima di ogni forma di prevaricazione. Tutto ciò fa gli interessi dei
sostenitori della democrazia in Romania: senza la capacità di intervento
dell’Ue inserita nei testi, sarebbero ancora più isolati di quanto lo sono
oggi. Questo è il vantaggio di far parte dell’Ue. Il rovescio della medaglia è
che l’autorità che fa applicare lo stato di diritto non deriva dallo stato
stesso (cosa non più necessaria). Tuttavia il controllo benevolo dell’Ue può
impedire alcune norme, ma non consolida automaticamente le forze democratiche
presenti nel paese.
L’Ungheria è un esempio di questo
effetto a doppio taglio. Il governo nazional-conservatore di Viktor Orbán mette
deliberatamente l’equilibrio dei poteri a dura prova, nel tentativo di porre il
Fidesz, il partito al potere, al di sopra delle istituzioni. Una situazione che
l’Ue non può tollerare.
E quest’ultima obbliga in
continuazione Orbán a fare retromarcia, per esempio sulla sua politica nei
confronti dei media e della banca centrale ungherese. Quando l’Ue punta i
piedi, il primo ministro ungherese è costretto a mantenere il profilo basso e a
dimostrare obbedienza, ma al tempo stesso fa l’occhiolino per far capire che si
piega solo perché è obbligato ma prima o poi troverà il modo per aggirare il
volere di Bruxelles. Si assiste quindi a una partita di ping-pong fra Orbán e
l’Ue nella quale l’opposizione ungherese ha solo un ruolo secondario.
Per schematizzare, il fatto che a
Bruxelles ci sono dei guardiani della morale democratica ha relegato in secondo
piano l’opposizione ungherese. Di fatto questo gioco fra Bruxelles e Budapest
non è tale da favorire in Ungheria quello che non dovrebbe mancare (o quasi) in
una comunità dell’Ue, cioè l’influenza e le possibilità di intervento della
società civile.
Stringere la
cinghia
Ma la cura di rigore può anche
tradursi in tagli radicali in società che hanno impiegato secoli a formarsi. Ed
è esattamente quello che sta succedendo in Italia. L’Italia è un paese
complesso e fragile a causa della sua formazione tardiva. Si tratta di uno dei
pochi paesi europei la cui esistenza si basa sulla molteplicità delle identità
regionali e soprattutto locali. È quello che gli italiani (e anche noi) amiamo
tanto, una diversità basata al tempo stesso sul paesaggio e sulle tradizioni
architettoniche e gastronomiche.
Oggi il paese deve stringersi la
cinghia e il determinato Monti, a cui le agenzie di rating – e lo stesso Silvio
Berlusconi – non danno tregua, deve tagliare dove è possibile: la pubblica
amministrazione, il sistema sanitario, la protezione sociale e così via. Anche
la giungla (compresa quella culturale) dei vari enti regionali e locali non
sarà risparmiata.
In questo modo il governo vuole
ridurre drasticamente il numero delle province, delle regioni e dei comuni.
Questa scelta della ragione, non è però una scelta della storia o del cuore.
Quello di cui si rammaricano in particolare gli italiani è che la decisione non
sia il frutto del loro ragionamento, della loro riflessione, ma il risultato di
una direttiva di Bruxelles.
Le “piccole patrie” italiane sono
minacciate, per riprendere il concetto utilizzato dal giornalista Francesco
Merlo. Queste piccole patrie sono forse poco funzionali per Bruxelles, ed è
certo che lo sono, ma quello che Bruxelles dimentica è che la vita della gente
non si riduce solo a una questione di funzionalità. Purtroppo i responsabili
politici europei sembrano interessarsi a questo genere di problematiche solo
quando assaporano in privato le gioie di una locanda francone, di un ristorante
bretone o di una trattoria piemontese.
Traduzione di Andrea De Ritis
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