Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


martedì 17 luglio 2012

EUROPA - L’asfissiante stretta di Bruxelles

In nome dell’interesse generale europeo, Bruxelles è costretta a fare pressione sui suoi membri. Tuttavia la Romania, l’Ungheria e l’Italia mostrano che l’effetto può essere nefasto e provocare un indebolimento della società civile e delle culture locali.
Thomas Schmid 16 luglio 2012 DIE WELT Berlino

L’indebitamento è un’ipoteca sul futuro. Per questo motivo il rigore costituisce l’elemento fondamentale di una politica il cui obiettivo è la sopravvivenza di questa associazione di stati flessibile e rigida al tempo stesso, che abbiamo deciso un po’ frettolosamente di chiamare “Unione” europea. In alcuni paesi dell’Ue, questa priorità è considerata come un diktat della Germania, cosa che non si può ritenere del tutto infondata.

Ma a dire il vero bisogna anche riconoscere che la nuova politica europea di rigore provoca diversi problemi. Infatti nonostante i bei discorsi sull’Europa federale e sulla sua struttura apparentemente caratterizzata dalla sussidiarietà, in realtà – e non solo in tempi di crisi finanziaria – l’interesse generale dell’Unione può avere pesanti conseguenze sulla sovranità. I nuovi governi in Grecia e in Italia non sarebbero mai stati eletti senza la pressione dell’Ue. Ma fino a quando gli stati europei non avranno assimilato il fatto che l’Ue è una comunità, gran parte della popolazione recepirà queste misure – e non a torto – come una messa sotto tutela e una privazione dei propri poteri. Cosa che può essere strumentalizzata a livello locale.

Un esempio di questa situazione è oggi la Romania, un paese europeo che è stato autorizzato prematuramente a integrare l’Unione anche se non offriva tutte le condizioni di stabilità necessarie. Qui è in corso una lotta fra lo schieramento erede dell’era socialista, rappresentato dal primo ministro Victor Ponta, e i conservatori riuniti intorno a Traian Băsescu, l’ex presidente sospeso dal parlamento. In una Romania logorata dalla corruzione, le diverse forze politiche considerano lo stato come un bottino da spartire. E chi – come l’ex ministro della giustizia, la coraggiosa Monica Macovei – vorrebbe mettere fine a questa situazione, non dispone degli strumenti necessari per farlo.

Questa gente basa le proprie speranze sull’integrazione della Romania nell’Ue e sul divieto da parte di quest’ultima di ogni forma di prevaricazione. Tutto ciò fa gli interessi dei sostenitori della democrazia in Romania: senza la capacità di intervento dell’Ue inserita nei testi, sarebbero ancora più isolati di quanto lo sono oggi. Questo è il vantaggio di far parte dell’Ue. Il rovescio della medaglia è che l’autorità che fa applicare lo stato di diritto non deriva dallo stato stesso (cosa non più necessaria). Tuttavia il controllo benevolo dell’Ue può impedire alcune norme, ma non consolida automaticamente le forze democratiche presenti nel paese.

L’Ungheria è un esempio di questo effetto a doppio taglio. Il governo nazional-conservatore di Viktor Orbán mette deliberatamente l’equilibrio dei poteri a dura prova, nel tentativo di porre il Fidesz, il partito al potere, al di sopra delle istituzioni. Una situazione che l’Ue non può tollerare.

E quest’ultima obbliga in continuazione Orbán a fare retromarcia, per esempio sulla sua politica nei confronti dei media e della banca centrale ungherese. Quando l’Ue punta i piedi, il primo ministro ungherese è costretto a mantenere il profilo basso e a dimostrare obbedienza, ma al tempo stesso fa l’occhiolino per far capire che si piega solo perché è obbligato ma prima o poi troverà il modo per aggirare il volere di Bruxelles. Si assiste quindi a una partita di ping-pong fra Orbán e l’Ue nella quale l’opposizione ungherese ha solo un ruolo secondario.

Per schematizzare, il fatto che a Bruxelles ci sono dei guardiani della morale democratica ha relegato in secondo piano l’opposizione ungherese. Di fatto questo gioco fra Bruxelles e Budapest non è tale da favorire in Ungheria quello che non dovrebbe mancare (o quasi) in una comunità dell’Ue, cioè l’influenza e le possibilità di intervento della società civile.

Stringere la cinghia

Ma la cura di rigore può anche tradursi in tagli radicali in società che hanno impiegato secoli a formarsi. Ed è esattamente quello che sta succedendo in Italia. L’Italia è un paese complesso e fragile a causa della sua formazione tardiva. Si tratta di uno dei pochi paesi europei la cui esistenza si basa sulla molteplicità delle identità regionali e soprattutto locali. È quello che gli italiani (e anche noi) amiamo tanto, una diversità basata al tempo stesso sul paesaggio e sulle tradizioni architettoniche e gastronomiche.

Oggi il paese deve stringersi la cinghia e il determinato Monti, a cui le agenzie di rating – e lo stesso Silvio Berlusconi – non danno tregua, deve tagliare dove è possibile: la pubblica amministrazione, il sistema sanitario, la protezione sociale e così via. Anche la giungla (compresa quella culturale) dei vari enti regionali e locali non sarà risparmiata.

In questo modo il governo vuole ridurre drasticamente il numero delle province, delle regioni e dei comuni. Questa scelta della ragione, non è però una scelta della storia o del cuore. Quello di cui si rammaricano in particolare gli italiani è che la decisione non sia il frutto del loro ragionamento, della loro riflessione, ma il risultato di una direttiva di Bruxelles.

Le “piccole patrie” italiane sono minacciate, per riprendere il concetto utilizzato dal giornalista Francesco Merlo. Queste piccole patrie sono forse poco funzionali per Bruxelles, ed è certo che lo sono, ma quello che Bruxelles dimentica è che la vita della gente non si riduce solo a una questione di funzionalità. Purtroppo i responsabili politici europei sembrano interessarsi a questo genere di problematiche solo quando assaporano in privato le gioie di una locanda francone, di un ristorante bretone o di una trattoria piemontese.

Traduzione di Andrea De Ritis

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