Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


martedì 24 luglio 2012

ITALIA – Rivoluzione cercasi disperatamente ……

«Voglio un’estate spericolata» si potrebbe cantare, parafrasando il vecchio Vasco. Spericolata ma tutt’altro che spensierata, e non solo per le batoste che ci arrivano ormai con ritmo quotidiano dal governo Goldman-Monti: stangata Imu, pressione fiscale al 55% (record mai raggiunto in Italia), approvazione del Fiscal Compact (45 miliardi di euro all’anno sulla gobba degli italiani).
L’estate sta diventando spericolata anche a livello politico, visto che a margine del governo Monti – e in attesa di Grillo – è tutto un rincorrersi di voci, indiscrezioni, tentazioni e ipotesi di rimodellamento del vecchio scenario politico pressoché spazzato via dall’ascesa dei tecnocrati. Riassumendo sinteticamente: il Pdl non c’è più, come già avevano sancito gli elettori. Forse ritorna Forza Italia, magari si ricompone una specie di An più piccola e imbolsita, Fini starebbe per lanciare il suo ennesimo partitucolo personale (si accettano scommesse sui tempi dell’ennesimo fallimento) e la Lega Nord, dopo la cura dimagrante delle ultime elezioni, passa dalle mani incerte di Bossi a quelle di Maroni, anche se il vecchio e tremolante senatùr non vuole mollare la presa.

Intanto c’è chi cerca la via di ritorno alla petrosa Itaca, ma l’isola – come ha scritto qualcuno – è affollata di proci e francamente non si vede all’orizzonte un valente arciere, così come fu Ulisse, in grado di poterli infilzare come tordi. Meglio girare al largo oppure, pietra per pietra, rimanere «… ai sassi aridi della mia Troade, alle memorie del mio Ettore domatore di cavalli, al riflesso della pira ardente che ne ha disperso per sempre le ceneri nel cielo», per dirla con le parole di Franco Cardini.

Nel tourbillon di partiti che vanno e che vengono e nelle giravolte delle alleanze effimere come gli amorazzi da spiaggia, sembra di leggere le famose parole del principe di Salina: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». L’eterno immobilismo dell’eterna Italietta, ogni giorno meno Italia ma pur sempre piccina piccina.

Eppure non occorre essere profeti per vedere il baratro che si appropinqua. I nostri vicini greci già ci sono, nel baratro. E non hanno avuto la forza, il coraggio o l’incoscienza di scartare all’ultimo per evitare il precipizio, affidandosi invece al paracadute fallato della Trojka e degli avvoltoi di Bruxelles. Forse la caduta sarà un po’ rallentata, ma non è detto che faccia meno male.

Sono in pericolo anche i cugini spagnoli, che dopo anni di fiesta e di movida oggi scoprono con orrore che si trattava di balli sul ponte del Titanic. Farebbero ancora in tempo a reagire e ci sono piccoli segnali che lasciano sperare che il popolo, i cittadini iberici, non si vogliano rassegnare: la marcia dei minatori, le maxi manifestazioni, spontanee e apartitiche, organizzate da professori, medici e impiegati pubblici, la protesta – magari pittoresca – dei pompieri, che posano nudi per dimostrare che è stato loro tolto ormai tutto. Ma anche la vibrata reazione dei rappresentanti delle forze armate di Madrid, che si sono associate alla protesta generale contro «lo smantellamento dei diritti che non avremmo mai dovuto perdere». Non solo una questione di soldi, quindi. Hanno capito che qui entrano in gioco diritti sociali che si pensavano acquisiti, per noi e per le generazioni future. E che invece vengono messi in discussione dai tecnocrati delle banche. E che dire della polizia che a Madrid, invece di manganellare, si toglie il casco e solidarizza con i manifestanti? Segnali di vita, speriamo.

Da queste parti, invece, regna una rassegnazione tombale. Sarà che non ci hanno ancora tolto le tredicesime, né hanno cominciato a mandare a casa i dipendenti pubblici (ma quelli privati ormai è anni che sono espulsi dalle fabbriche con metodica e impressionante regolarità), però a leggere i giornali sembra che i veri problemi siano le ondate di caldo, il dibattito sulle coppie gay nel Pd, le telefonate del Quirinale, le cervellotiche estorsioni fra Dell’Utri e Berlusconi, la presunta gravidanza di Belen Rodriguez, l’addio di Ibrahimovic al calcio italiano.

Scongiurata l’eventualità di elezioni in autunno, si andrà a rieleggere il Parlamento nella primavera del 2013 e forse – dipenderà dalla legge elettorale – anche a indicare coalizione e premier del futuro governo. Cioè il governo che raccoglierà i cocci di un’Italia salassata e prostrata dai tecnocrati ma tutt’altro che salva. Tempo sei mesi, quindi, e comincerà una delle campagne elettorali più delicate della storia repubblicana. Con quali prospettive? È presto detto: sarà anche peggio dell’ultima volta…

Rubiamo ancora un’opinione di Franco Cardini, espressa in una recente intervista [LEGGI QUI]: «I parametri di destra e sinistra sono fluidi, interscambiabili, relativi ai contesti in cui vengono utilizzati. Il dramma è che oggi la sinistra non vuole distinguersi dai propri avversari né sul piano economico, visto che appoggia le privatizzazioni e lo smantellamento dello Stato sociale; né in ambito internazionale, essendo in prima linea nel rivendicare la saldatura tra Ue e Usa attraverso la Nato. Mentre l’emancipazione dell’Europa passa per la fuoriuscita dall’Alleanza atlantica».

Al di là della destra e della sinistra? Se ne discuteva già trent’anni fa ma oggi sembra che finalmente ci siamo arrivati. Non per merito dei protagonisti, naturalmente, ma perché la realtà intorno a loro ha reso del tutto inutili i miseri distinguo ideologici, le nostalgie partitiche, gli orticelli elettorali, i piccoli interessi di bottega. Prima la Grecia, oggi la Spagna, domani l’Italia e dopodomani il resto d’Europa: c’è un continente al bivio e finora nessuno che si azzardi a dare risposte che non siano tardo ottocentesche o, nella migliore delle ipotesi, primo novecentesche.

Prendiamo in prestito le parole di un altro “saggio”, che rispetto a Cardini politicamente proviene dalla sponda opposta. Di recente l’economista e sociologo francese Serge Latouche ha concesso a un giornale online un’intervista che brilla per lucidità, coraggio e anche spregiudicatezza. Vale la pena leggerla (Martedì 17 luglio leggi  la versione integrale “Serge La Touche”]. Ecco uno dei passaggi salienti:

Ma lei che cosa farebbe se fosse il premier italiano?
L’Italia dovrebbe andare in bancarotta.

Che cosa intende?
Pensi al debito.

Secondo l’Fmi quello italiano è quasi al 140% del Pil.
Appunto: non sarà ripagato, lo sanno tutti. Ne è consapevole anche Mario Monti. Il problema, per l’attuale classe dirigente, non è ripagare il debito. Ma è fingere di poter continuare il gioco: cioè ottenere prestiti e rilanciare un’economia che è solo speculativa.

Quali sono le prime cinque misure che adotterebbe al posto di Monti?
Innanzitutto, cancellerei il debito. Parlo come teorico, so che ci sono cose che Monti non potrebbe fare comunque, neppure se fosse di sinistra o un decrescente. Ma sto parlando di bancarotta dello Stato.

La bancarotta è la soluzione?
È più che altro la condizione per trovare le soluzioni.

In che senso?
Non porta necessariamente alla soluzione, anzi in un primo momento le cose possono peggiorare. Ma non c’è altro modo, perché non esiste via d’uscita dentro la gabbia di ferro del sistema attuale. L’Italia non sarebbe la prima né l’ultima. Tutti quelli che l’hanno fatto si sono sentiti meglio, da Carlo V all’Argentina.

Più avanti Latouche sfata anche il tabù del protezionismo, un altro dei dogmi imposti dalla cultura della globalizzazione liberista. Alla perplessa giornalista italiana risponde così: «Devo usare una parola che in Italia fa sempre paura: serve una politica risolutamente protezionista. Esiste un cattivo protezionismo, è vero. Ma c’è anche un cattivissimo libero scambio. Mentre esiste un buon protezionismo, ma non un buon libero scambio. Perché? Perché la concorrenza leale sempre invocata non esiste. E non esisterà mai. Semplicemente perché tutti i Paesi sono diversi. Come si può competere con la Cina? È una barzelletta». Parla come uno della Lega Nord, ribatte l’intervistatrice. Ma il teorico della decrescita, che nasce come marxista, non si scompone: «Lo so, lo so. E anche come uno del Front National. Sa perché ha successo l’estrema destra? Perché non tutto quel che dicono è stupido. C’è una parte insopportabile, ma se sono popolari – e lo saranno sempre di più – è perché hanno capito alcune cose, hanno ragione. È questo che fa paura».

Altro che tecnici, economisti e professoroni della Bocconi. Ciò che servirebbe all’Italia, ma in ultima analisi all’Europa intera, sarebbe un rivoluzionario. Attenzione, niente a che vedere con i guerriglieri o i bombaroli del secolo passato: a noi servirebbe un leader (o una leader, perché no?) rivoluzionario nel pensiero e soprattutto nell’azione politica ed economica. Uno capace di dare il giro al tavolo, visto che la roulette è palesemente truccata. In grado di dire con chiarezza che cosa ci aspetta e come si potrebbe provare a uscire dal tunnel, invece di prolungare l’agonia di un Paese cancellando i diritti, prosciugando i risparmi delle famiglie, azzerando lo stato sociale, cedendo la sovranità nazionale e svendendo a pezzi il patrimonio pubblico. Senza peraltro lasciar intravedere neppure una speranza di sviluppo e di ripartenza.

Basterebbe arrivasse un esempio concreto, anche dall’estero. Qualcuno che avesse il coraggio di gridare che «il re è nudo» e desse un calcio alla prima tessera; con la speranza di far venire giù tutto il percorso del domino. E che naturalmente riuscisse ad avere un seguito popolare sufficiente a imprimere la svolta in modo democratico e possibilmente pacifico, anche se le rivoluzioni non sempre sono del tutto incruente. Il problema è che all’orizzonte si vedono solo mezze figure: senza idee, senza sogni, senza coraggio. E per trovare un leader, purtroppo, non si può mettere un annuncio sul giornale, organizzare un reality o pubblicare un appello su internet.

Giorgio Ballario

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