Sennonchè… quella che
apparentemente sembra essere una costruzione compiuta e “moderna” del socialismo è
in realtà figlia di un lungo travaglio e di una complicata maturazione, di
cadute, risalite e ancora ricadute; è figlia di <<una storia lunga>>,
come osserva Gaetano Pecora nel suo ultimo libro “Socialismo come libertà. La storia lunga di Gaetano
Salvemini” (Donzelli).
Dopo la giovanile
infatuazione per il marxismo, Salvemini, consapevole ormai che questa dottrina
serbava in sé i germi per incatenare l’individuo ai ceppi di un regime
soldatesco, ben presto si inscrisse nell’universo di un riformismo di squisita
marca secondointernazionalistica, che lo portò a differenziarsi sia dalle
<<espettorazioni
rivoluzionarie>> che dal riformismo troppo conciliante e
morbido del Partito, tanto sensibile alle sorti degli operai del Nord quanto
estraneo alle vicende dei contadini meridionali. Da qui le memorabili battaglie
per la democrazia e il suffragio universale. Perché la democrazia, quel lento
procedere per prove ed errori nel rispetto dei diritti personali e politici,
rianimata dai meccanismi del suffragio universale che avrebbero dato voce ai
bisogni di tutti quei <<relitti
senza nome e senza voce che stentavano la vita e pativano destini
ingrati>>, era l’unica strada per elevare gli ultimi e i
dimenticati. Le riforme, infatti, avrebbero meglio lubrificato i motori della
macchina capitalistica, mettendola nelle condizioni di funzionare meglio e di <<rendere tutti un po’ meno infelicemente
pezzenti e un po’ tutti più passabilmente decenti>>.
Se qui si fermasse il
suo pensiero, non avremmo dubbi a inserire Salvemini tra i padri nobili di un
socialismo moderno che si sposa perfettamente con la democrazia liberale e
l’economia di mercato. Ma, come fa notare Pecora, non fu sempre questo il tono
del socialismo di Salvemini, il quale, issatosi fino a intravedere le soglie di
un socialismo “moderno”,
spesso cadde giù e tornò a un riformismo “antico”
che affermava l’importanza dello sviluppo capitalistico esclusivamente come
presupposto necessario per il successivo passaggio a un altro sistema economico
improntato alla socializzazione o addirittura al collettivismo economico. <<Io non dò nessuna importanza
alla proprietà privata>>, arrivò finanche a sostenere,
dimentico di come la proprietà privata fosse un presupposto necessario tanto
della democrazia che del benessere materiale. La storia ne è buona testimone.
Solo la proprietà privata e la “pecora”
capitalistica hanno permesso di produrre quella ricchezza materiale che
attraverso la “tosatura”
socialdemocratica hanno consentito al socialismo di ottenere, dentro il sistema
liberal-capitalistico e non fuori, le sue più belle conquiste. Certo, l’ultimo
Salvemini, quello disilluso dalla natura umana, ritornò a perorare la causa di
un socialismo moderno, ma sempre, comunque, fino alla fine, i sussulti di quel
socialismo antico tornarono a riecheggiare nella sua mente.
Ma allora, che
socialista fu Salvemini? Un <<socialista
riformista, questa è la verità>>, risponde Pecora. Ma un
riformismo dai due volti, uno “moderno”,
che accettava la democrazia liberale e l’economia di mercato nella prospettiva
di migliorarle, e uno “antico”,
che riteneva si dovesse, sia pure gradualmente, arrivare comunque alla
trasformazione radicale della società e del sistema economico esistente. In
fondo lo aveva affermato lo stesso Salvemini in attimi di accorata sincerità: <<cursum consummavi fidem
servavi>>. Noi non sappiamo quale dei due fosse più grande.
Certamente, il Salvemini moderno ce lo sentiamo più vicino. E ancora oggi
avrebbe tanto da dire.
Sabatino Truppi
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