Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


venerdì 10 agosto 2012

ITALIA - Socialismo come libertà

<<Ci chiameremmo socialisti – scriveva Gaetano Salvemini nel 1953 – dato che ameremmo lavorare alla costruzione di un assetto sociale, nel quale i diritti di libertà siano integrati da un minimo di benessere e di sicurezza per tutti, senza il quale minimo né può sorgere il desiderio della libertà, né i diritti di libertà possono essere di regola praticati>>. Era un socialismo, questo di Salvemini, che muoveva da un’esigenza schiettamente morale, la stessa di Nenni, dell’ultimo Nenni (<<un uomo buono – secondo Salvemini – che faceva tutto quello che è possibile fare per rendere meno bestiale la vita della povera gente>>). E’ passato più di un cinquantennio, ma oggi quanti padri di famiglia, quanti pensionati, quanti disoccupati o giovani precari non le sottoscriverebbero in pieno quelle parole di Salvemini?
Sennonchè… quella che apparentemente sembra essere una costruzione compiuta e “moderna” del socialismo è in realtà figlia di un lungo travaglio e di una complicata maturazione, di cadute, risalite e ancora ricadute; è figlia di <<una storia lunga>>, come osserva Gaetano Pecora nel suo ultimo libro “Socialismo come libertà. La storia lunga di Gaetano Salvemini” (Donzelli).

Dopo la giovanile infatuazione per il marxismo, Salvemini, consapevole ormai che questa dottrina serbava in sé i germi per incatenare l’individuo ai ceppi di un regime soldatesco, ben presto si inscrisse nell’universo di un riformismo di squisita marca secondointernazionalistica, che lo portò a differenziarsi sia dalle <<espettorazioni rivoluzionarie>> che dal riformismo troppo conciliante e morbido del Partito, tanto sensibile alle sorti degli operai del Nord quanto estraneo alle vicende dei contadini meridionali. Da qui le memorabili battaglie per la democrazia e il suffragio universale. Perché la democrazia, quel lento procedere per prove ed errori nel rispetto dei diritti personali e politici, rianimata dai meccanismi del suffragio universale che avrebbero dato voce ai bisogni di tutti quei <<relitti senza nome e senza voce che stentavano la vita e pativano destini ingrati>>, era l’unica strada per elevare gli ultimi e i dimenticati. Le riforme, infatti, avrebbero meglio lubrificato i motori della macchina capitalistica, mettendola nelle condizioni di funzionare meglio e di <<rendere tutti un po’ meno infelicemente pezzenti e un po’ tutti più passabilmente decenti>>.

Se qui si fermasse il suo pensiero, non avremmo dubbi a inserire Salvemini tra i padri nobili di un socialismo moderno che si sposa perfettamente con la democrazia liberale e l’economia di mercato. Ma, come fa notare Pecora, non fu sempre questo il tono del socialismo di Salvemini, il quale, issatosi fino a intravedere le soglie di un socialismo “moderno”, spesso cadde giù e tornò a un riformismo “antico” che affermava l’importanza dello sviluppo capitalistico esclusivamente come presupposto necessario per il successivo passaggio a un altro sistema economico improntato alla socializzazione o addirittura al collettivismo economico. <<Io non dò nessuna importanza alla proprietà privata>>, arrivò finanche a sostenere, dimentico di come la proprietà privata fosse un presupposto necessario tanto della democrazia che del benessere materiale. La storia ne è buona testimone. Solo la proprietà privata e la “pecora” capitalistica hanno permesso di produrre quella ricchezza materiale che attraverso la “tosatura” socialdemocratica hanno consentito al socialismo di ottenere, dentro il sistema liberal-capitalistico e non fuori, le sue più belle conquiste. Certo, l’ultimo Salvemini, quello disilluso dalla natura umana, ritornò a perorare la causa di un socialismo moderno, ma sempre, comunque, fino alla fine, i sussulti di quel socialismo antico tornarono a riecheggiare nella sua mente.

Ma allora, che socialista fu Salvemini? Un <<socialista riformista, questa è la verità>>, risponde Pecora. Ma un riformismo dai due volti, uno “moderno”, che accettava la democrazia liberale e l’economia di mercato nella prospettiva di migliorarle, e uno “antico”, che riteneva si dovesse, sia pure gradualmente, arrivare comunque alla trasformazione radicale della società e del sistema economico esistente. In fondo lo aveva affermato lo stesso Salvemini in attimi di accorata sincerità: <<cursum consummavi fidem servavi>>. Noi non sappiamo quale dei due fosse più grande. Certamente, il Salvemini moderno ce lo sentiamo più vicino. E ancora oggi avrebbe tanto da dire.

Sabatino Truppi

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