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giovedì 27 settembre 2012

ITALIA - Caso Sallusti: la menzogna non è libertà di espressione

Il dibattito infuocato sulla condanna del direttore de Il Giornale rischia di mischiare aspetti diversi delegittimando da un lato la magistratura, dall'altro lo stesso giornalismo.

Difficile esprimere, come fanno oggi tutti i colleghi e la stessa Federazione nazionale della stampa italiana, solidarietà ad Alessandro Sallusti, ex direttore di Libero e direttore dimissionario del Giornale, per la sentenza che lo vede condannato per diffamazione.
Difficile se si è letto il pezzo incriminato che non esprime un'opinione come tutta la stampa e la politica di matrice berlusconiana vorrebbero far intendere, ma una distorsione dei fatti resa ancora più odiosa dall'argomento, delicatissimo e controverso: l'aborto di una tredicenne.
Ancor più difficile se è noto il personaggio, il modo in cui scrive, la violenza ingiuriosa e populista con la quale da sempre ha condotto il proprio lavoro di giornalista che dovrebbe consistere, in primo luogo, nell'analisi della realtà e nella sua traduzione in un punto di vista serio e credibile anche se non necessariamente condivisibile.

Tuttavia, una seria riflessione dovrebbe trattare separatamente i due aspetti rilevanti della vicenda. Il primo riguarda la sua eco mediatica, ed è la distorsione della sentenza che non parla affatto di reato di opinione, come gli ambienti vicini al giornalista vorrebbero far credere, ma di diffamazione aggravata, ossia di menzogna. Due cose ben diverse che confondere tra loro è un atto di cosciente manomissione della realtà ad uso e consumo di quella destra strillona, volgare e populista che ha tutto l'interesse a difendere uno dei suoi più illustri rappresentanti sulla carta stampata. Tanto più che, incurante della condanna, Sallusti continua a portare avanti la battaglia contro la "magistratura comunista" su cui lo stesso Berlusconi ha costruito la sua fortuna di "perseguitato". «Non chiederò la grazia a Napolitano perché, detto con rispetto, nel suo settennato nulla ha fatto di serio e concreto per arginare quella magistratura politicizzata che con odio e bava alla bocca si e' scagliata contro chiunque passasse dalle parti del centrodestra e che ora, dopo avere ripassato i politici, vuole fare pulizia anche nei giornali non allineati alle loro tesi» scrive oggi sul Giornale il direttore dimissionario. E anche qui ci sarebbe da discutere se si tratta di opinione oppure di nuova diffamazione. Ma lo valuterà la magistratura stessa.
Il secondo aspetto riguarda la pena (poi sospesa), inappropriata in uno stato civile. 14 mesi di reclusione per un giornalista, seppur reo di diffamazione aggravata a mezzo stampa, non sono giustificabili in un ordinamento che sappia distinguere la delinquenza comune dall'uso, se pur improprio, della penna.

Come al solito, nel gran calderone della stampa italiota i due aspetti vengono confusi e invertiti, divenendo due facce della stessa medaglia. Il messaggio che filtra quasi indisturbato è: un direttore di giornale è stato condannato a 14 mesi di carcere per aver pubblicato un'opinione. Un'infamia verso la magistratura, che si è limitata ad applicare la legge, e verso la stessa professione di giornalista che chi afferma di difendere invece infanga.
Allora cominciamo a scindere le due cose e a considerarle separatamente. Sallusti non risponde di reato di opinione ma di diffamazione aggravata; tuttavia la privazione della libertà è pena troppo severa e inconciliabile con il senso "comune" della giustizia. Questi sono i termini corretti sui quali impostare la critica e la successiva discussione. Tutto il resto è solo mistificazione.

Cecilia Calamani

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