A determinarne il decesso le sue colpe, ma
anche un’infinità di assassini, ognuno più potente dell’altro.
Gli americani, con i loro servizi deviati e
no. La finanza ebraica e il Mossad. Gli industriali. I magistrati e le stampa,
con il loro circuito. La Lega. I novisti di ogni risma. Il tutto con il
consenso di una pubblica opinione che salutava ogni avviso di garanzia come lo
squillo della tromba di Gerico. E con la resa preventiva (salvo qualche
eccezione, come Craxi) degli esponenti del vecchio ordine, la cui unica segreta
speranza era che la tempesta colpisse qualcun altro (e magari il proprio
compagno di partito).
Oggi, la storia sembra
ripetersi. Perché si ispira agli stessi principi: il nuovo contro il vecchio,
la società civile contro la politica e contro i partiti, la magistratura,
guardiana delle virtù pubbliche e private, contro un mondo in cui la corruzione
sembra non conoscere confini, abbracciando potenzialmente tutto e tutti. E
perché all’aggressività nuovista dei pochi corrisponde, come allora, la viltà,
intellettuale prima ancora che morale, degli altri.
Pure, tra il 1992 e il
2012, ci sono sostanziali differenze, che marcano le nostre vicende di oggi
sotto il segno, insieme, della catastrofe e di una squallida comicità. Insomma,
della farsa tragica.
Ieri, avevamo di fronte
grandi nemici; e portatori di un disegno sistemico in qualche modo alternativo
a quello esistente. Disegno che è bene ricordare (meno stato, più decisionismo,
valorizzazione del privato, nuova centralità della questione settentrionale,
bipolarismo forzato); anche perché la sua attuazione ci ha portato all’attuale
disastro. In questo disegno c’erano i buoni e i cattivi; i primi, i sostenitori
del nuovo ordine, individuali e collettivi; i cattivi, gli altri.
Oggi non ci sono né
grandi nemici né grandi disegni. A farci tremare, a condizionare i nostri
comportamenti sono: un Robespierre senza la ghigliottina, un Masaniello
furbastro e un predicatore talmente invasato di sé stesso da considerare i suoi
critici come potenziali assassini. Da loro, e dai loro imitatori, nessun
progetto che non sia quello di sfasciare ciò che c’è per costruirvi sopra le
loro fortune; magari nel tanto disprezzato parlamento delle larve.
Pure, questi nuovi
nemici sono in grado di fare un danno enormemente maggiore e irreparabile.
Perché mettono in gioco il funzionamento del sistema democratico; nel senso che
nessun sistema può essere in grado di funzionare normalmente all’insegna del
sospetto universale e del nuovismo sfrenato. E soprattutto perché, ecco il
punto, affondano i loro colpi in un corpo che sembra oramai incapace di
qualsiasi reazione. E per carenze proprie.
Reagire, in nome della
politica, non vuol dire rivendicare i diritti o le prerogative di una
professione o del suo domino riservato; significa fare politica. E di questa,
qui e oggi, non c’è la minima traccia. Si parla dell’“agenda Monti” senza
specificare come si affronteranno i suoi appuntamenti. Si blatera di
“bipolarismo” senza essere in grado di chiarire ciò che divide e ciò che unisce
i due schieramenti. Si trasforma una primaria che dovrebbe decidere il nome del
presidente designato in un sondaggio di opinione interno al Pd. Si dichiara,
con il cuore in mano, di considerare il superamento del “porcellum” un sacro
dovere, ma ci si confonde poi in diatribe senza costrutto, magari per approdare
alla sua riconferma. E, soprattutto, ci si guarda bene dallo spiegare agli
elettori le ragioni del disastro degli ultimi vent’anni; così da confermarli
nell’opinione che la “colpa” sia di tutti e di nessuno. E, comunque, della
classe politica. Si partecipa alla caccia alle istituzioni e al parlamento,
sperando di non pagare dazio in questa rincorsa demagogica. E così, ancora,
ancora e ancora. Insomma, si spera di sopravvivere. E, forse, data la pochezza
degli “sfascisti”, si sopravviverà. Ma impotenti; e sotto tutela: dell’Europa e
del suo cieco rigore, delle corporazioni, dell’arruffapopolo di turno, di
chiunque alzi la bandiera del “no”.
Vent’anni fa la classe
politica italiana morì di morte violenta; vittima di molteplici forze esterne.
Oggi rischia di vegetare nell’impotenza. Una sorte, forse, peggiore.
Alberto Benzoni
dall'Avanti del 9 settembre 2012
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