Jean-Marie
Colombani 1 ottobre 2012 El PAIS Madrid
È venuto il turno
della Francia di presentare il proprio bilancio al risparmio, con impegni e
sacrifici quantificabili in 37 miliardi di euro, necessari a riportare il
deficit pubblico al di sotto della soglia del 3 per cento, come si sono
auto-imposti i paesi membri della zona euro.
Mentre l’attività
produttiva continua a rallentare, le manovre finanziarie di Italia, Spagna e
Portogallo non potranno che portare a un 2013 ancora più difficile del 2012,
tenuto conto della disoccupazione record. La priorità assoluta va dunque al
riassorbimento della disoccupazione. Le recenti manifestazioni in Spagna,
l’affermarsi in Grecia di un partito nazista, l’ascesa in ampie percentuali
dell’opinione pubblica francese di un sentimento antieuropeo: nulla di tutto
ciò, naturalmente, giova.
Sempre più
economisti, tuttavia – e tra essi il premio Nobel ed editorialista del New York
Times Paul Krugman – affermano che se si continua ad aggiungere austerity ad
austerity, l’Europa non soltanto non ripartirà, ma si impoverirà sempre più. E
forse entrerà in un ciclo che potrebbe assomigliare davvero alla grande depressione
degli anni trenta.
Al momento trovare la
giusta via di mezzo tra liberarsi del paralizzante debito pubblico e rilanciare
la via per la crescita e infondere speranza è quanto mai problematico. Il primo
ministro francese Jean-Marc Ayrault parla di dittatura dei mercati: per porre
rimedio al proprio debito, ha spiegato, la Francia ha bisogno come la Spagna di
prendere in prestito capitali sui mercati al tasso più basso possibile.
È quanto vale oggi
per la Francia, fin dall’elezione di François Hollande. Se la Francia non saprà
dare l’impressione di aver fatto tutto il possibile per tornare sotto la soglia
del 3 per cento, sarà sanzionata con tassi di interesse che renderanno
insostenibili le spese del debito. È a questo punto che ci si dice che ciò che
un paese non è in grado di fare da solo, la zona euro potrebbe tentarlo tutta
insieme, alleggerendo l’obbligo del 3 per cento e spalmando nel tempo, paese
per paese, l’inevitabile inversione di marcia.
Cerchiamo però di
capirci: il male da cui siamo tutti affetti, a esclusione della Germania, è un
deficit di competitività. Questo giustifica buona parte degli sforzi e dei
sacrifici che ci sono chiesti. Ma bisogna anche tener conto che per evitare
all’Europa una recessione prolungata è necessario ridare flessibilità al
sistema. Da questo punto di vista, il tempo stringe.
Il nuovo trattato in
corso di ratifica offre una breccia della quale bisogna saper approfittare,
distinguendo tra deficit strutturali e deficit congiunturali. I primi devono
essere categoricamente colmati e tendere allo zero, mentre i secondi –
determinati in particolare dal ritmo della congiuntura – dovranno essere
adattati a questo ritmo. Se si apre un varco, però, cerchiamo di approfittarne.
Modello
americano
Forse vale la pena
ripercorre le precedenti tappe della crisi, iniziata negli Stati Uniti. Sin
dall’inizio la crisi americana è parsa in grado di mettere in pericolo sia
l’economia sia la finanza mondiale. È stato allora che i paesi del G20 hanno
trovato una risposta, sintonizzando i propri punti di vista e concertando ciò
che andava fatto.
Oggi Stati Uniti e
Cina (le cui esportazioni in Europa sono scese rispettivamente quasi del 10 e del
5 per cento), ma anche Brasile e altri paesi constatano l’entità dei danni
provocati dall’inazione europea: perché dunque non si mettono d’accordo e
nell’ambito di un G-20 rinnovato non si decidono una buona volta a rispondere
tutti insieme? Dopo tutto, ciò che ha giovato agli Stati Uniti dovrebbe aiutare
anche l’Unione europea.
Purtroppo, dopo che
il grosso della crisi americana è passato, abbiamo vissuto un ritorno alla
difesa degli interessi nazionali, con tentativi protezionistici sempre più
evidenti che si sono in parte concretizzati. È invece il momento di invertire
la tendenza e di dare avvio a livello di G20 alla concertazione necessaria.
Sarebbe anche ora che l’Europa capisse che non tutti possono lottare contro il
deficit con lo stesso ritmo e che occorre avere di conseguenza la saggezza di
diluire nel tempo gli sforzi degli uni e degli altri.
Proprio come sarebbe
ora di attuare le decisioni prese. François Hollande si vanta di aver
completato la manovra di bilancio con un patto per la crescita di almeno 120
miliardi di euro. Che cosa stanno aspettando dunque i nostri governi per
mobilitare queste somme al servizio della crescita? (Traduzione di Anna Bissanti)
Da
Parigi
L’autunno è ancora tiepido
Il 30 settembre a
Parigi circa cinquantamila persone hanno manifestato contro il trattato fiscale
europeo, alla vigilia del suo esame da parte del Parlamento. “Gli oppositori
del trattato europeo, scesi per la prima volta in strada per una manifestazione
di rilievo nazionale dopo la vittoria dei socialisti, vogliono avere un ruolo
nel dibattito parlamentare sul trattato”, scrive La
Croix. L’editoriale
del quotidiano descrive la mobilitazione parigina come “la prima manifestazione
di sinistra contro un governo di sinistra”.
Il quotidiano
francese sottolinea che la manifestazione è stata molto lontana dal milione di
persone che hanno invaso le strade di Atene, Madrid e Lisbona nelle ultime
settimane, e ricorda che
il trattato è una
tappa essenziale per valutare la capacità degli europei di mettere ordine nelle
loro finanze e per restituire fiducia all’eurozona e all’economia francese.
Senza l’accordo i meccanismi di solidarietà verso gli stati più fragili non
potranno entrare in funzione.
La posizione di La
Croix sembra essere condivisa dalla maggioranza dei francesi, almeno secondo i
risultati di un sondaggio
pubblicato da Aujourd’hui en France – Le Parisien: “se il trattato fosse
sottoposto a referendum il 64 per cento dei francesi voterebbe sì”.
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