Olivier
Dupuis 4 ottobre 2012 LE HUFFINGTON POST POST Parigi
Aleppo, Damasco,
cadaveri nelle strade, quartieri sventrati, bombardamenti ciechi, immagini e
racconti intollerabili, che ci rimandano direttamente ai momenti più tragici di
Sarajevo e di Grozny. Città distrutte. E nulla sembra muoversi. Gli Stati Uniti
sono in campagna elettorale, gli europei invece vorrebbero intervenire, ma non
possono.
Questa impotenza
europea non condiziona solo la soluzione di un conflitto che sembra destinato a
durare a lungo, ma contribuisce anche alla trasformazione di un conflitto
politico in un conflitto militare del tutto asimmetrico. La "democrazia
Potëmkin" russa ha sfruttato abilmente questa assenza americana e questa
impotenza europea. L'Europa del "soft power" è nuda, e aspetta
novembre come se aspettasse Godot, nella speranza di un'iniziativa americana o
che gli insorti abbiano preso il sopravvento. In ogni modo al di là del caso
siriano, l'Europa deve uscire da questa insostenibile impossibilità strategica.
La questione della
debolezza strategica dei paesi europei non può essere letta alla sola luce
della capacità (o meno) di condurre delle operazioni di mantenimento o di
ristabilimento della pace; si inserisce nel cuore dei movimenti tettonici che
agitano il mondo strategico. Gli Stati Uniti lo hanno capito e reagiscono
spostando il centro di gravità della loro politica di sicurezza dall'Atlantico
al Pacifico, chiedendo agli europei di assumersi maggiori responsabilità.
Impegni ai quali gli europei hanno risposto finora solo attraverso una nuova
formulazione della cosiddetta politica dello "spendere meno, spendere
meglio", cioè la cosidetta "difesa intelligente".
Le
missioni di Petersberg
Ma se la difesa,
ancora più della moneta, tocca da vicino le prerogative statali delle nazioni,
lasciamo allora alla Nato e agli Stati membri la difesa in senso stretto,
compresa la questione della dissuasione nucleare, e concentriamoci invece su
quello che è già oggetto di consenso nell'Unione : "all'Europa spettano le
missioni di Pietroburgo (mantenimento della pace, imposizione della pace e
missioni umanitarie) e alla Nato (e quindi agli Stati membri) il mantenimento
degli equilibri strategici", scriveva
Jean-Jacques Roche lo scorso gennaio.
Non si tratterebbe
quindi di unire gli eserciti (o parte di essi) dei vari Stati membri, ma di
creare ex novo accanto agli eserciti nazionali un esercito europeo comune. Con
il suo stato maggiore, il suo sistema di reclutamento, le sue scuole militari,
le sue basi e le sue strutture di intelligence.
Se si parte
dall'ipotesi di una cooperazione rafforzata alla quale aderirebbero
inizialmente dieci paesi membri (Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Grecia,
Italia, Olanda, Polonia, Portogallo e Spagna) con il trasferimento dello 0,2
per cento del loro Pil – cioè una percentuale compresa fra l'8 e il 20 per
cento del loro bilancio destinato alla difesa – in favore dell'esercito europeo
comune, i fondi annuali arriverebbero a quasi 18 miliardi di euro. Se a questi
si aggiungessero gli inglesi si supererebbero i 21 miliardi di euro. Una cifra
non indifferente, se si considera che questi mezzi dovrebbero essere
soprattutto destinati a delle forze di proiezione.
Uno strumento
militare comune obbligherebbe gli Stati membri a deliberare e a decidere
insieme la partecipazione o meno alle missioni di mantenimento o di
ristabilimento della pace e sulle modalità di queste operazioni. Inoltre
contribuirebbe a definire una politica estera comune e permetterebbe anche agli
Stati membri di finanziare quei programmi che non sono in grado di portare a
termine da soli. Infine l'esercito comune permetterebbe agli eserciti nazionali
degli Stati partecipanti di beneficiare di servizi che hanno sempre più
difficoltà a procurarsi da soli (capacità di osservazione e di comunicazione
satellitare, protezione contro le minacce batteriologiche, chimiche e nucleari,
gruppi aeronavali, servizi di intelligence e così via).
Doppia
approvazione
Ma se l'approccio
fosse "comunitario", la responsabilità politica dell'organizzazione
del funzionamento di questo esercito sarebbe interamente affidata al presidente
della Commissione europea e a un commissario per la sicurezza e la difesa. A
loro spetterebbe la decisione sull'opportunità di impegnare o meno l'esercito
comune nelle operazioni di mantenimento o di ristabilimento della pace. Questa
decisione sarebbe sottoposta alla duplice approvazione del Parlamento europeo e
del Consiglio dei paesi partecipanti alla cooperazione rafforzata.
Attraverso questo
consiglio gli Stati membri – e in particolare quelli più densamente popolati –
conserverebbero un buon controllo aritmetico e politico sulla decisione sul
ricorso alla forza. Questo esercito comune sarebbe integrato alla Nato in
quanto riserva strategica, sulla base di modalità da definire con l'insieme dei
membri del Patto atlantico. La cooperazione rafforzata sarebbe aperta a tutti i
paesi dell'Ue che accettassero che questo esercito comune diventi parte
integrante della Nato.
Qualcuno potrebbe
osservare che l'Unione europea in questo periodo di crisi ha altri problemi da
risolvere. Ma dire questo significa non rendersi conto di quello che la
creazione di questo esercito europeo comune potrebbe fornire in termini di
credibilità politica al progetto europeo nel suo insieme, compreso fra gli
attori economici.
Del resto il budget
dell'Unione sarebbe di fatto aumentato di più del 20 per cento. L'esercito
comune permetterebbe inoltre di tenere conto degli effetti centripeti in
termini di sviluppo economico attraverso gli investimenti nei paesi del sud per
le principali infrastrutture necessarie.
Europei
convinta
Con il cancelliere
tedesco Angela Merkel, con l'uomo forte del suo governo Wolfgang Schauble, con
il presidente francese François Hollande, con Giorgio Napolitano, con il
presidente del consiglio italiano Mario Monti, con il polacco Donald Tusk e lo
spagnolo Mariano Rajoy, raramente l'Europa ha avuto così tante personalità di
primo piano apertamente europeiste. Se a queste si aggiunge il primo ministro
inglese, noto per il suo pragmatismo, vi è più di un motivo per ritenere che il
momento sia favorevole. Tuttavia la "finestra di lancio" è ridotta,
poiché in primavera ci saranno le elezioni politiche in Italia e poi sarà il
momento della Germania.
Tutto questo ci ha
portato molto lontano dalla tragedia siriana, perché anche se l'Europa si
decidesse ad affrontare la questione della sua politica di sicurezza, ci vorrà
del tempo prima che questa diventi operativa. Tuttavia si può ragionevolmente
ritenere che una decisione europea in questo senso potrebbe avere effetti
immediati su quei paesi che oggi bloccano qualunque iniziativa in favore di
un'azione della comunità internazionale per fermare la funesta politica del
regime siriano.
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