Hans Hoyng 25 ottobre 2012 DER
SPIEGEL Amburgo
Da quando siamo
diventati tutti premi Nobel per la
pace, passati i primi discorsi di autocelebrazione, i nostri esperti
più realisti hanno cominciato a storcere il naso: sì, d'accordo ma la politica,
quella vera, non funziona così. "La pace ha un costo", ha ricordato
lo specialista di diritto costituzionale Paul Kirchhof (e sottinteso: siamo noi
a pagarlo).
Quando il sociologo
tedesco Ulrich Beck ha profetizzato sullo Spiegel che molto presto la Germania
si sarebbe ritrovata "davanti alla scelta fra Europa e non Europa" –
previsione che oggi sottoscriverebbe il 70 per cento dei responsabili politici
europei – si è visto rispondere che era troppo esagerato.
E quando l'austriaco
Robert Menasse ha chiesto nel suo ultimo libro [“Il messaggero europeo“ (non
tradotto in italiano), in riferimento al pamphlet rivoluzionario di Georg
Büchner del 1834 Il
messaggero dell'Assia] la soppressione del Consiglio europeo,
considerato il punto di riferimento dei nazionalisti più meschini – una
richiesta che probabilmente il presidente della Commissione europea José Manuel
Barroso inserisce nelle sue preghiere serali prima di andare a dormire – la Zeit ha
esclamato indignata: gli "ideologi" del suo stampo sono
peggiori di tutti i populisti eurofobi di Roma o dell'Aia messi insiemi.
Ma perché? Perché il
"super-europeo" Daniel Cohn-Bendit sarebbe più pericoloso del
"super-biondo" ed eurofobo Geert Wilders? Perché ogni voce che invita
a non perdere di vista le finalità dell'Europa deve essere ignorata o
considerata, nel migliore dei casi, ingenua? Perché Bruxelles sarebbe
condannata a rimanere per sempre "un'idra burocratica"? Perché
bisogna contrapporgli uno stato nazionale europeo eretto a ideale democratico
assoluto?
Non tutti hanno
voglia di vivere in una "super Austria", dove l'espressione
"politica del consenso" significa che tutto va per il meglio quando
una mano lava l'altra. O in Italia, che si è salvata dal crollo solo grazie
alle dimissioni di una classe politica in favore di un dittatore a termine con
l'etichetta di "tecnocrate" per non dare alla manovra un'immagine
troppo disonorevole.
Nel frattempo il
modello tedesco, che i responsabili politici e i media vorrebbero tanto
esportare fino ai confini più remoti dell'Europa, è in difficoltà – non solo a
causa delle difficoltà politiche dovute alla partitocrazia e a un federalismo
attaccato ai privilegi ottenuti, ma anche perché noi stessi siamo incapaci di
controllare il nostro debito pubblico, cosa che invece esigiamo ad alta voce
dagli altri paesi. Il primo a mettere in guardia contro un'Europa tedesca era
stato il riunificatore della Germania Helmut Kohl.
Abbiamo la tendenza a
giudicare i numerosi errori e le mancanze dell'Europa sulla base dei presunti
meriti degli stati-nazione, che peraltro fanno grande fatica ad adattarsi alle
condizioni sovranazionali della globalizzazione.
Perché ci vergogniamo
dell'Europa? C'era un tempo in cui tutti i giorni l'ambasciata tedesca a Londra
issava con orgoglio la bandiera europea, perché i suoi funzionari sapevano che
questo avrebbe fatto arrabbiare Margaret Thatcher che lavorava negli uffici
dall'altro lato della strada. All'epoca il modello europeo era ammirato perché
aveva permesso l'entrata di paesi poveri come l'Irlanda e il Portogallo.
E dall'oggi al domani
questa Europa sarebbe diventata un continente sfaticato? In alcuni casi
l'Europa era già in funzione ancora prima dell'arrivo dell'Ue: nel 1953 i
firmatari del patto di Londra avevano stabilito per la Repubblica federale
tedesca dei durissimi obblighi finanziari [le riparazioni per i danni causati
durante la seconda guerra mondiale dovevano essere versate in caso di
riunificazione della Germania] – ma la Grecia aveva votato in favore di una
riduzione del debito.
È vero, l'Europa è in
crisi. Ma una cosa è certa, non è con il ritorno agli stati-nazione che ne
usciremo.
Traduzione
di Andrea De Ritis
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