Jedrzej
Bielecki 23 novembre
2012 DZIENNIK GAZETA PRAWNA Varsavia
Angela Merkel ci
aveva messo in guardia già nel 2009: non aspettiamoci miracoli, perché nessuna
decisione politica, per quanto coraggiosa, potrà scongiurare il crollo
dell’economia europea. A quel tempo la cancelliera era l’unica a presagire il
futuro in questi termini. Oggi ci si accorge invece che aveva visto giusto,
commenta Nicolas Veron,
esperto dell’istituto Bruegel di Bruxelles. A cinque anni dall’inizio della
crisi, la situazione economica dell’Unione resta drammatica: sono in recessione
17 paesi membri su 27.
Nei paesi colpiti più
duramente dalla crisi, come Spagna o Portogallo, dovrà passare almeno una
generazione prima che si riesca a compensare il calo del livello di vita. Un
simile lasso di tempo potrà rivelarsi insostenibile per l’Ue. Per la prima
volta dalla sua creazione l’Unione europea, contrariamente alla zona euro,
rischia di disgregarsi. Di mese in mese questo scenario si fa sempre più
evidente, senza che si possa dire quale processo – quello della costruzione di
un’Eurolandia forte intorno alla Germania, o quello della disintegrazione del
blocco dei paesi euroscettici, Regno Unito in testa – prenderà il sopravvento
sull’altro.
Una cosa è certa :
questi sviluppi non sono quelli che Angela Merkel auspicava e che anzi ha
tentato in ogni modo di impedire. In particolare, la cancelliera voleva che la
nuova Unione più integrata facesse posto a tutti gli effetti alla Polonia e ad
altri stati dell’Europa centrale, paesi che costituiscono per la Repubblica
federale non soltanto una base industriale (le aziende tedesche vi hanno
delocalizzato buona parte della loro produzione), ma fungono anche da alleati
nel Consiglio dell’Ue quando insieme a Berlino sostengono riforme strutturali e
responsabilità di bilancio.
Il progetto di questa
Europa, tuttavia, è fallito. Sotto la pressione dei mercati, i dirigenti della
zona euro hanno gettato le basi di un sistema istituzionale della zona euro con
una supervisione bancaria, un controllo della politica monetaria e un budget
indipendente. Queste misure dovevano costituire il minimo vitale per garantire
il buon funzionamento della zona euro, senza arrecare danno ai fondamenti
dell’Unione europea. Oggi possiamo constatare che si tratta di un’ipotesi
irrealistica, ammette Cinzia Alcidi
del Ceps (Center for european policy studies).
La situazione
particolarmente rischiosa riguarda la pietra angolare dell’integrazione, il
mercato unico. Nei paesi nei quali lo stato dell’economia ispira la fiducia
degli investitori, per esempio Germania e Paesi Bassi, le spese dei crediti
contratti dagli imprenditori sono notevolmente inferiori a quelle dei paesi
della periferia dell’Ue. Non si può più parlare pertanto di una concorrenza
alla pari, a favore della quale Bruxelles ha operato negli ultimi
cinquant’anni.
Altra constatazione
fallimentare è quella relativa al flop del modello europeo mirante a un certo
equilibrio nei livelli di vita all’interno dell’Unione. Grazie ai fondi
strutturali, ma anche garantendo libero accesso al mercato dell’Ue per tutte le
entità economiche, si è effettivamente riusciti a limitare gli squilibri negli
standard di vita dei vari paesi europei. La Grecia, per esempio, fino al 2009
poteva vantare un reddito pro capite corrispondente al 94 per cento della media
dell’Union, non troppo distante da quello della Germania (115 per cento). Ma
oggi i divari tra questi due paesi si sono enormemente accresciuti: il livello
di vita in Grecia è sceso al 75 per cento, raggiungendo uno standard
equiparabile a quello della Polonia, mentre quello della Germania è decollato
al 125 per cento.
Secondo le stime
degli economisti, queste disuguaglianze si acuiranno ancor più negli anni a
venire. Quest’evoluzione implica che gli interessi degli stati membri saranno
sempre più divergenti. Mentre romeni, bulgari, greci e portoghesi cercheranno
di garantire la sopravvivenza delle loro popolazioni, la Germania e la Svezia
preferiranno mettere l’accento sulle questioni ambientali e le fonti
alternative di energia. Secondo Veron sarà come dialogare tra sordi.
La crisi ha eliminato
anche un altro grande risultato dell’integrazione: il modello sociale europeo,
che il mondo intero ci invidiava. I tagli di bilancio che si sono susseguiti
non soltanto in Spagna e in Grecia, ma anche in Francia e nel Regno Unito,
generano una drastica riduzione delle garanzie sociali, in materia di diritto
del lavoro, di pensioni, di disoccupazione, e creano di conseguenza una
generazione di giovani privi di prospettive di un impiego stabile, senza i
presupposti materiali per poter mettere su famiglia.
Berlino
resta sola
Perfino il quotidiano
filoeuropeo Der Spiegel ammette apertamente che il centro decisionale dell’Ue
si è spostato da Bruxelles a Berlino. Ciò è avvenuto senza alcuna particolare
pressione da parte dei tedeschi, ma per esclusione. Tra i sei paesi più importanti
dell’Ue, due – Italia e Spagna – non sono neppure stati presi in considerazione
a causa dei loro enormi problemi economici. Il Regno Unito, invece, si è
autoescluso da solo.
Quanto alla Polonia,
in ragione del suo potenziale economico ancora troppo debole e del fatto che
non fa parte della zona euro, non può pretendere di rivestire un ruolo chiave.
Per un certo periodo è sembrato che l’Europa fosse dominata dal tandem
franco-tedesco, il famoso “Merkozy”. Ma dall’elezione del nuovo presidente
francese François Hollande è diventato chiaro che Parigi, a fronte di grossi
problemi economici, non è in grado di trattare da pari a pari con la Germania.
Berlino, dunque, è rimasta sola sul campo di battaglia.
Focalizzata sui
propri problemi, l’Europa non riesce a occuparsi di quelli altrui. Di
conseguenza la disintegrazione della politica estera comunitaria è un’altra
cupa profezia che si avvera sotto i nostri occhi. L’evoluzione autoritaria
dell’Ucraina, la situazione drammatica della Siria, l’abbandono della lotta per
i diritti dell’uomo in Cina sono soltanto alcuni esempi dell’impotenza dell’Ue.
Nel frattempo la
questione dei futuri allargamenti dell’Ue è stata accantonata: l’adesione
all’Unione ormai sarebbe concepibile soltanto per i paesi dei Balcani che si trovano
all’interno dei confini dell’Europa. L’offerta più ambiziosa, in particolare
nei riguardi dei paesi dell’ex Unione Sovietica e della Turchia, non è più
all’ordine del giorno.
A cinque anni dallo
scoppio della crisi l’Europa sopravvive, almeno per ora. Ma le perdite sono
astronomiche e l’Unione europea è regredita sulla strada dell’integrazione per
imbattersi in quegli stessi problemi che credeva di aver risolto 30 o 40 anni
fa. Ormai perfino gli ottimisti dicono: “Purché le cose non peggiorino”. (Traduzione
di Anna Bissanti)
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