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sabato 17 novembre 2012

ITALIA - Aborto, l'Europa riceve il ricorso contro l'obiezione di coscienza

L'elevato numero di obiettori in Italia limita l'attuazione della legge sull'interruzione di gravidanza? Lo deciderà a breve il Comitato europeo dei diritti sociali.

Come sovente accade, i diritti dei cittadini italiani devono passare dal Consiglio d'Europa e poi forse - ma non è detto - vengono recepiti dalla nostra legislazione. E così il fatto che il Italia il numero dei medici obiettori di coscienza sia talmente alto da invalidare l'applicazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza è stato denunciato il mese scorso dall'organizzazione non governativa Ippf (International planned parenthood federation european network) con il supporto della Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per la applicazione della legge 194) al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d'Europa. Il quale, proprio in questi giorni, ha giudicato "ricevibile" l'istanza rigettando allo stesso tempo la richiesta del governo italiano di dichiararla "irricevibile". Il che non significa certo che seguirà una sentenza favorevole per i diritti delle donne, ma l'accoglienza del ricorso è già un segnale positivo. Entro il 6 dicembre il governo italiano dovrà inviare le proprie argomentazioni ed entro il 17 gennaio l'Ippf dovrà rispondere.

I numeri riguardati l'obiezione di coscienza in Italia sono aberranti: come riporta la stessa Relazione annuale sull'attuazione della legge 194 del ministero della Salute, pubblicata all'inizio di ottobre, rifiutano di praticare le interruzioni di gravidanza il 69,3 per cento dei ginecologi e il 44,7 per cento degli anestesisti. E in alcune regioni italiane - precisamente Campania, Molise, Sicilia e Basilicata - si supera la soglia dell'80 per cento di ginecologi obiettori. Ma i numeri indicano solo delle medie e andrebbero analizzati ospedale per ospedale. Perché in Italia, percentuali a parte, accade anche che alcune strutture chiudano il servizio per l'assenza di medici non obiettori: è successo proprio quest'anno a Fano e a Jesi, nelle Marche.

È la stessa legge 194, all'articolo 9, a permettere l'obiezione di coscienza. Ma se nel 1978, anno in cui è entrata in vigore, poteva avere un senso tutelare i medici già in servizio per non costringerli ad accettare una mansione "in più" che poteva non accordarsi con la loro etica, oggi non se ne capisce davvero più il motivo. In 34 anni c'è stato un completo ricambio generazionale all'interno delle strutture ospedaliere e non è più pensabile che chi vuole fare il ginecologo del servizio pubblico possa rifiutare una sua mansione "scaricandola" sui colleghi disponibili e invalidando l'applicazione stessa della legge. Che però rimane vaga e imprecisa sul fenomeno dell'obiezione, limitandosi a stabilire che «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure previste [...] La Regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale». Ma non definisce i parametri sui quali si misura il servizio, la sua accettabilità e quali sono le contromisure che lo Stato può intraprendere nei confronti delle Regioni in cui il numero di obiettori compromette la stessa applicazione della legge. E in questa ambiguità proliferano situazioni di stallo e inadempienze, con donne costrette a cambiare provincia se non regione per abortire senza che ci sia chiara responsabilità dei soggetti coinvolti e soprattutto senza l'attuazione di misure correttive (mobilità del personale, assunzioni mirate) ad appianare le disfunzioni.

Ma c'è un quesito che viene a monte e su cui il nostro parlamento, ancor prima prima dell'Europa, dovrebbe interrogarsi: l'obiezione di coscienza all'aborto è davvero un diritto del medico? Un diritto riguarda l'individuo e la sua libertà, ma ha un limite endemico: quello di non ledere diritti di altri. Quando il soldato di leva rifiutava di imbracciare le armi - e bisogna ricordare che il servizio militare era un obbligo, al contrario della professione di ginecologo - lo faceva "per sé". Non ledeva l'altrui libertà di sparare, solo si rifiutava di farlo lui stesso. La sua scelta non solo non aveva conseguenze, ma veniva anche penalizzata: prima dell'approvazione della legge sull'obiezione di coscienza alla leva militare con la galera; dopo con un "servizio civile" più lungo rispetto a quello ordinario. Lo Stato, cioè, faceva pesare il rifiuto del cittadino a una imposizione di legge. Ed è esattamente quello che non accade con gli obiettori all'aborto: stesso stipendio dei colleghi e meno oneri. Ma c'è di più. Nel caso dell'obiezione di coscienza all'aborto, al contrario di quella all'obbligo di leva, si crea una inaccettabile contrapposizione di diritti: il diritto di chi obietta contro il diritto di una donna di scegliere l'interruzione della gravidanza. Perché l'obiettore all'aborto non fa una scelta "per sé", come faceva l'obiettore alla leva, ma la fa per altri. L'azione che decide di non eseguire non riguarda se stesso ma altre persone che invece l'hanno liberamente scelta secondo la legge.

Ecco perché non si può parlare di "diritto", come fa chi rivendica la possibilità del medico di scegliere. L'obiezione di coscienza all'aborto non è un diritto perché non è un dovere fare il ginecologo, l'anestesista o l'infermiere in una struttura pubblica. E perché nessun diritto personale, in uno Stato che aspiri a definirsi civile, può ledere altro diritto di altra persona.

Cecilia M. Calamani

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