Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


venerdì 9 novembre 2012

ITALIA - Intervista esclusiva ad Alfredo Reichlin

Oggi è in redazione con noi il giornalista e politico del PD, Alfredo Reichlin, che – tra cenni storici ed esperienze di vita vissuta - ci dirà la sua su come è cambiata la politica negli ultimi anni.

Il suo percorso è stato notevole. Cosa ha voluto dire per un ragazzo così giovane avvicinarsi alla politica in quegli anni?
Io sono del 1925 e ho preso la licenza liceale nel ’43. Momento fatidico perché fu proprio nell’estate di quell’anno che cadde Mussolini e ci fu il colpo di stato; l’8 settembre l’armistizio e poi l’occupazione di Roma. Io avevo solo 18 anni nel ’43. Ero amico e compagno di scuola di Luigi Pintor – a lungo direttore de “Il Manifesto” – allora solo un ragazzo come me. Nonostante la giovane età eravamo collegati alla cospirazione antifascista e comunista romana, che già esisteva sotto il fascismo e che faceva capo a Lombardo Radice e a Ingrao. Quindi noi eravamo già dentro un grosso discorso di cospirazione antifascista.
Legato a Pintor, mi trovavo a frequentare una casa dove giravano, seppur giovanissimi, i grandi intellettuali dell’epoca e questo mi ha facilitato nel capire le cose. Cadde il fascismo e, a quel punto, emersero i partiti clandestini tra cui ovviamente il partito comunista. Nel frattempo, però, i tedeschi avevano occupato Roma – così come gran parte dell’Italia – perciò cominciò la lotta clandestina nella città. Tanto per citare l’ episodio più famoso: l’attentato di via Rasella. Si parlava di gappismo, ossia gruppi armati organizzati di patrioti comunisti. Quindi avevo solo 18 anni, ma ero ben più che iscritto al Partito comunista. Ero un gappista, ero un partigiano.
La mia vita politica è cominciata così, molto precocemente e con una forte componente intellettuale. Non è una cosa da ridere un ragazzo di 18 anni che gira per Roma con la pistola e che, se lo arrestano, non lo mandano in prigione, ma a via Tasso e lo torturano. Quindi sono anche stati mesi terribili.

In cosa è cambiata a suo parere la politica italiana da allora? Le motivazioni del “fare politica” sono le stesse?
Se andiamo sul generale, le motivazioni sono sempre le stesse: cambiare il mondo.
Io penso che la crisi politica sia diventata profondissima – a differenza di allora – per una ragione fondamentale: è avvenuto un mutamento della struttura del mondo. Ai miei tempi la politica era concepita all’interno di una Stato-nazione e i poteri erano lì, dentro uno Stato nazionale con una economia nazionale. Certo, anche allora c’era l’autonomia dell’economia, ma pur sempre limitata allo Stato.
Cosa è successo poi? È finito lo Stato-nazione e il mondo si è internazionalizzato. Quindi è cambiato il rapporto tra politica ed economia. Mentre prima erano due poteri concorrenti, l’uno forte quanto l’altro, ora invece la politica non conta più niente e l’economia si è rafforzata. Questo fatto ha una ragione evidente. L’economia è mondializzata e con un click sul tuo computer sposti immensi capitali, mentre la politica ha perso il suo vero potere in quanto è rimasta legata ai confini nazionali e ora si trova ad essere il sottogoverno. “Sono i mercati” ti dice Mario Monti.
Insomma, vedo uno squilibrio enorme tra potenza e potere. Dove per potenza intendo la potenza dei mercati finanziari, che decidono se l’economia va bene o male, se bisogna licenziare, se i giovani avranno un lavoro o saranno destinati al precariato. Ma anche la potenza della scienza. Ai miei tempi era il governo a fare ricerche scientifiche, mentre oggi chi decide sono i grandi laboratori, le grandi istituzioni private. Fondamentale anche la potenza dei media. Hollywood decide oggi del nostro immaginario - è la potenza del pensiero unico. Per non parlare della potenza della criminalità, anch’essa ormai internazionale.
Questo da un lato. Dall’altro quello che io chiamo il potere, che è il potere della politica. Si tratta, però, di un potere limitato, locale, che non abbraccia le grande decisioni. Questo è il cuore della crisi politica, che ha allora un nome ben chiaro: è la crisi della democrazia.
Oggi certo che ci sarebbe un grande ideale: riconquistare l’autonomia, l’umanesimo, l’uomo che torna a decidere del proprio destino. Una riscossa in nome dei diritti dell’uomo, in nome del realizzare le proprie capacità. Che cos’è la vita se non questo? E io oggi sono meno pessimista di ieri, perché il sistema della grande finanza – come potenza che decide delle grandi cose – si sta indebolendo. Non regge perché non si governa così il mondo. Crea troppe ingiustizie. Siamo tornati alle differenze che c’erano tra aristocrazia e plebe, cosa che pensavamo fosse finita da due secoli.

E quale potrebbe essere la via d’uscita?
La via d’uscita la si cerca nella creazione di un superstato: l’Europa. La creazione di un nuovo soggetto politico all’altezza delle cose. Il punto è concepire una nuova società più egualitaria e razionale, cosa non pensabile senza un nuovo potere, un potere democratico.
L’Europa è una grande cosa anche perché si collega a forze ormai sconfitte, che non contano più ma esistono – forze di sinistra, umane. Perché non esiste l’economia se determina una disgregazione sociale. Se l’umanità si vuole salvare, deve ridare potere alla società, intesa non come somma di individui ciechi ma di persone che realizzano i loro obiettivi, le loro vocazioni, che possono progettare il loro futuro. Perché voi giovani oggi non siete in grado di fare questo. Per progettare bisogna avere degli strumenti che non avete. Questi strumenti sono dati dalla politica, che deve tornare al comando. Per questo io capisco e condivido tutto il male che si può dire della politica, ma ne sono anche un esaltatore, perché la politica significa il potere degli uomini di decidere del loro destino a prescindere dalle ricchezze. Questo è il pensiero che si deve mettere in moto nella nuova generazione.
L’Italia è un paese molto a rischio in questo processo di unificazione politica in Europa. Una struttura come la nostra, con il Mezzogiorno in queste condizioni, con la camorra, ecc.
La vera colpa della politica oggi, compreso il mio partito, è di cadere nello stupidissimo linguaggio di tutti i giorni: eh Casini, eh Vendola… La politica non può essere ridotta a questo giochetto di palazzo.

Cosa ha significato l’esperienza a “L’Unità”?
Dopo pochi mesi dalla liberazione di Roma nel ’44, attraverso amici, entrai a “L’Unità” come redattore che non avevo neanche 20 anni. Quindi posso dire che la mia militanza non è cominciata nel partito, ma come giornalista.
Allora il giornale era un organo strettamente legato al partito. C’erano un certo rigore, una certa disciplina. Per esempio lo stipendio del redattore doveva essere pari a quello di un operaio metalmeccanico. Eravamo egualitari.
“L’Unità” fu una novità, ma era anche un giornale settario, del partito comunista. Noi facemmo uno sforzo per trasformarlo in un grande giornale. Fu lo stesso Togliatti a spiegarcelo: come il “Corriere della Sera” era l’organo della classe dirigente, così “L’Unità” lo era della classe operaia. Perciò dovevamo renderlo non solo lo strumento per determinate battaglie, ma anche e soprattutto strumento d’informazione, perché l’operaio doveva leggere del mondo.

Lei ha detto in un’intervista di aver davvero “riscoperto la politica come passione” quando è stato mandato in Puglia come segretario regionale del PCI.
Certo. Arrivai negli anni ‘60 e mi trovai davanti ancora la civiltà contadina, la Puglia dei braccianti. Ma questi poveri furono anche coloro che si misero in moto e cambiarono le cose. Io ho avuto modo di vedere come cambia tutto quando – come diceva Di Vittorio – il contadino smette di togliersi la coppola davanti al padrone. Ho diretto scioperi, occupazioni, interruzioni delle ferrovie. Scompigli grandi, ma anche entusiasmanti perché lì ho potuto vedere la crescita della coscienza collettiva, come il mondo possa essere pieno di possibilità, di individui.
Quello che servirebbe oggi è proprio riacquistare questa coscienza. La soggettività non intesa come pensare solo a se stessi, ma come il soggetto che si afferma anche attraverso il rapporto sociale. Perché l’uomo da solo non esiste.

Parlando di giovani. Per usare una frase di Palahniuk, “Quand'è che il futuro è passato da essere una promessa a essere una minaccia?” E, dunque, qual è la forza dei giovani?
Oggi i ragazzi hanno la sensazione di non contare nulla. Ai miei tempi io sentivo di contare! Perché c’era l’ideale del comunismo, c’era la forza degli operai, dei sindacati. Oggi i sindacati possono solo riparare alle decisioni prese da altri. Io avevo la sensazione di appartenere a una forza e quindi a un ideale da realizzare, a qualcosa che mi dava prospettiva, futuro. Voi giovani ormai siete carne da cannone, destinati al precariato – a meno che non entrate in uno dei grandi circuiti mondiali dove si fanno la scienza e la finanza.
Per questo bisogna riconquistare quel pensiero autonomo di cui parlavo prima. I ragazzi devono tornare a dire: “Voglio contare. Voglio costruirmi una carriera”. Invece di sentirsi dire: “Sei tanto bravo, ma sei un esubero”. Perché se la mondializzazione avviene attraverso i mercati, il valore del lavoro lo determina l’ultimo, quello che costa meno: il cinese.
La forza dei giovani potrebbe essere quella di organizzarsi, parlare con gli altri. Tutto sta nel cominciare ad agire. La situazione preoccupante che, invece, vedo è una gioventù sfiduciata, che in fondo subisce. Ci sono delle frange che fanno qualcosa, manifestano, ma niente di che.

Parlando del governo tecnico. Che ne pensa dell’operato del premier Monti?
Sono stati fatti anche tanti errori, ma sicuramente è stata restituita al Paese la possibilità di tornare a contare. Ci è stata restituita la dignità. Il che è fondamentale, perché sono sempre più convinto che politica interna ed estera non sono più distinguibili tra loro. Si pensi al numero di decisioni prese a Bruxelles e che determinano la nostra vita. E allora non si può mandare a rappresentarci il buffone che era quello lì… Monti ha restituito questo.
Poi ci sono molte cose che io non condivido. Ma è un lavoro grosso da fare. Se vogliamo governare, dobbiamo risolvere problemi come la corruzione o la situazione del Mezzogiorno. Non possiamo solo assistere al Monti di turno, che, però, ha dato il senso di una modernizzazione del Paese. Io non penso sia lui la soluzione al problema, però non condivido il concentrare tutta la polemica sul suo operato. Se non ci fosse stata questa soluzione, chissà dove saremmo arrivati ora.

Pensa che chiunque esca vincitore da queste primarie sarà in grado di acquistare la fiducia degli elettori e, in caso, di guidare il Paese verso una provvidenziale ripresa?
Io non parlo di “chiunque”. Io penso che debba vincere Bersani, perché non ho fiducia in questo Renzi. Perché piace tanto alla destra? Sono molto preoccupato. Naturalmente capisco molti dei motivi per cui riscuote tanto successo. Così come Grillo. Chiedono delle forme di partecipazione. Io instaurerei un dialogo maggiore.
Poi cosa vuole Renzi? Un uomo solo al comando. Perché? E in nome di cosa si candida? Dice di essere del PD, ma io non lo sento tale. Lo sento come uomo di altre forze.
Io trovo che ci sia la sinistra stessa in gioco. Per questo attribuisco alla vittoria di Bersani un’importanza maggiore, che della vittoria di uno sull’altro. Se vincesse Renzi farebbe la sinistra? Ne dubito. Non lo so. Non mi convince affatto.
Io ho molta stima dell’uomo Bersani, che è stato sottovalutato e invece è un uomo notevole, anche culturalmente. Trovo giusta la sua idea fondamentale: la sinistra da sola non può oggi affrontare una situazione come questa. Sento il bisogno di cercare delle alleanze. Occorrerebbe l’autorità e la forza per un nuovo appello nazionale. C’è la necessità di un partito di nazione, di qualcosa che unisca. Sento molto il bisogno di creare alleanze anche con le forze produttive del Paese, con l’imprenditoria sana. Si può fare ai giovani il vecchio discorso di destra e sinistra? In linea col problema attuale, dovremmo unirli in qualcosa di più.

Fonte Oltremedia News

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