Pensare Globale e Agire Locale

PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE


venerdì 9 novembre 2012

UN LIBRO - La bancarotta del liberismo

 
L’ultimo libro di Joseph Stiglitz, Bancarotta, merita la massima attenzione. In esso l’autorevole economista sottolinea con particolare vigore un fatto che “i “fondamentalisti del mercato” sistematicamente trascurano

di Luciano Pellicani

La Grande recessione – partita dall’America e diffusasi, simile a un contagio, nel resto del mondo – rappresenta una clamorosa smentita della tanto decantata new economy e delle sue strabilianti innovazioni che avevano caratterizzato la seconda metà del Novecento, comprese la deregulation e l’ingegneria finanziaria. Esse avrebbero garantito stabilità e crescente benessere. Per contro, milioni di cittadini americani hanno, quasi di colpo, perso la casa e il lavoro.

Evidentemente, qualcosa di sbagliato c’era nell’idea che lo Stato doveva limitarsi a garantire il corretto funzionamento del libero mercato. Persino Alan Greenspan – governatore della Federal Reserve – ha pubblicamente ammesso che la crisi scoppiata nel 2008 ha smentito i suoi più forti convincimenti. Ha ammesso, in altre parole, che la causa principale della Grande recessione è stata la dottrina neoliberista, di cui egli stesso è stato il sommo sacerdote.

Ma la cosa più grave è che gli ideologi del mercato autoregolato hanno sistematicamente e pervicacemente ignorato quanti – con lo stesso Stiglitz in testa – avevano previsto l’inevitabile bancarotta della new economy. “ L’unica sorpresa della crisi economica del 2008 – scrive con amara ironia Stiglitz – è che abbia colto di sorpresa così tate persone. Secondo alcuni osservatori, si è trattato di un caso da manuale, che non solo era prevedibile, ma che era stato previsto. Un mercato deregolamentato inondato di liquidità e con tassi di interesse bassi, una bolla immobiliare globale e l’aumento sconsiderato della concessione dei mutui subprime costituivano una combinazione tossica. Se a questa aggiungiamo il disavanzo fiscale e commerciale degli Stati Uniti e il corrispondente accumulo d'ingenti riserve in dollari da parte della Cina – insomma, una economia globale in pieno squilibrio –, era chiaro che le cose stavano andando malissimo”.

Pertanto, la conclusione non può che essere una: “ciò che differenzia questa crisi dalle molte che l’hanno precedute nell’ultimo quarto di secolo, è che reca il marchio made in Usa”. Il che significa – non lo si ripeterà mai abbastanza – che essa dimostra l’assurdità – tecnica, oltre che morale – del paradigma liberista. Una assurdità che Stiglitz è stato fra i primi a denunciare, ricordando a più riprese che i mercati – pur essendo il cuore pulsante di una economia efficiente e dinamica – “da soli non possono funzionare”. Non lo possono per le ragioni che furono illustrate ben novant'anni or sono da Keynes, al cui magistero Stiglitz si richiama esplicitamente.

Stiglitz non si limita a criticare i “fondamentalisti del mercato”. Suggerisce anche un’alternativa al paradigma neoliberista, la quale, in buona sostanza, altro non è che il paradigma socialdemocratico, la cui realizzazione più riuscita è quella svedese. E, infatti, sul caso svedese Stiglitz si sofferma per mettere in evidenza che – contrariamente a un luogo comune molto diffuso fra i conservatori – non è affatto vero che efficienza economica e welfare sono incompatibili. Lo sono. Ed è precisamente il sistema svedese che lo dimostra in maniera esemplare. La Svezia registra uno dei redditi pro capite più elevati nel mondo, superando di gran lunga gli Stati Uniti negli indici di benessere e di tutela sociale. E questo accadde perché il settore pubblico svedese è riuscito spendere il proprio denaro assai bene mentre il settore privato degli Stati Uniti ha fatto un pessimo lavoro. La Svezia, con le sue pratiche realizzazioni, dimostra che uno Stato sociale ben organizzato è in grado di fare da supporto a una società dinamica e innovativa.

Questa è la lezione che Stiglitz estrae dall’attuale Grande depressione. Una lezione che conferma la validità dei principi – operativi oltre che morali – della tradizione socialdemocratica, frettolosamente dati per defunti.

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