L’ultimo libro di Joseph Stiglitz, Bancarotta, merita la massima attenzione. In esso
l’autorevole economista sottolinea con particolare vigore un fatto che “i
“fondamentalisti del mercato” sistematicamente trascurano
di Luciano Pellicani
La Grande recessione – partita
dall’America e diffusasi, simile a un contagio, nel resto del mondo –
rappresenta una clamorosa smentita della tanto decantata new economy e
delle sue strabilianti innovazioni che avevano caratterizzato la seconda metà
del Novecento, comprese la deregulation e l’ingegneria finanziaria. Esse
avrebbero garantito stabilità e crescente benessere. Per contro, milioni di
cittadini americani hanno, quasi di colpo, perso la casa e il lavoro.
Evidentemente, qualcosa di sbagliato
c’era nell’idea che lo Stato doveva limitarsi a garantire il corretto
funzionamento del libero mercato. Persino Alan Greenspan – governatore della
Federal Reserve – ha pubblicamente ammesso che la crisi scoppiata nel 2008 ha
smentito i suoi più forti convincimenti. Ha ammesso, in altre parole, che la
causa principale della Grande recessione è stata la dottrina neoliberista, di
cui egli stesso è stato il sommo sacerdote.
Ma la cosa più grave è che gli
ideologi del mercato autoregolato hanno sistematicamente e pervicacemente
ignorato quanti – con lo stesso Stiglitz in testa – avevano previsto
l’inevitabile bancarotta della new economy. “ L’unica sorpresa della
crisi economica del 2008 – scrive con amara ironia Stiglitz – è che abbia colto
di sorpresa così tate persone. Secondo alcuni osservatori, si è trattato di un
caso da manuale, che non solo era prevedibile, ma che era stato previsto. Un
mercato deregolamentato inondato di liquidità e con tassi di interesse bassi,
una bolla immobiliare globale e l’aumento sconsiderato della concessione dei
mutui subprime costituivano una combinazione tossica. Se a questa
aggiungiamo il disavanzo fiscale e commerciale degli Stati Uniti e il corrispondente
accumulo d'ingenti riserve in dollari da parte della Cina – insomma, una
economia globale in pieno squilibrio –, era chiaro che le cose stavano andando
malissimo”.
Pertanto, la conclusione non può che
essere una: “ciò che differenzia questa crisi dalle molte che l’hanno precedute
nell’ultimo quarto di secolo, è che reca il marchio made in Usa”. Il che
significa – non lo si ripeterà mai abbastanza – che essa dimostra l’assurdità –
tecnica, oltre che morale – del paradigma liberista. Una assurdità che Stiglitz
è stato fra i primi a denunciare, ricordando a più riprese che i mercati – pur
essendo il cuore pulsante di una economia efficiente e dinamica – “da soli non
possono funzionare”. Non lo possono per le ragioni che furono illustrate ben
novant'anni or sono da Keynes, al cui magistero Stiglitz si richiama
esplicitamente.
Stiglitz non si limita a criticare i
“fondamentalisti del mercato”. Suggerisce anche un’alternativa al paradigma
neoliberista, la quale, in buona sostanza, altro non è che il paradigma
socialdemocratico, la cui realizzazione più riuscita è quella svedese. E,
infatti, sul caso svedese Stiglitz si sofferma per mettere in evidenza che –
contrariamente a un luogo comune molto diffuso fra i conservatori – non è
affatto vero che efficienza economica e welfare sono incompatibili. Lo
sono. Ed è precisamente il sistema svedese che lo dimostra in maniera
esemplare. La Svezia registra uno dei redditi pro capite più elevati nel mondo,
superando di gran lunga gli Stati Uniti negli indici di benessere e di tutela
sociale. E questo accadde perché il settore pubblico svedese è riuscito
spendere il proprio denaro assai bene mentre il settore privato degli Stati
Uniti ha fatto un pessimo lavoro. La Svezia, con le sue pratiche realizzazioni,
dimostra che uno Stato sociale ben organizzato è in grado di fare da supporto a
una società dinamica e innovativa.
Questa è la lezione che Stiglitz
estrae dall’attuale Grande depressione. Una lezione che conferma la validità
dei principi – operativi oltre che morali – della tradizione socialdemocratica,
frettolosamente dati per defunti.
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