Pensare Globale e Agire Locale

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giovedì 21 febbraio 2013

ITALIA - Pd, una mancia da deputati


I parlamentari devolvono al partito appena 1.500 euro su uno stipendio da 12-13 mila. Per i candidati c'è un gettone di ingresso da 35 mila. Ma i soldi rientrano in fretta una volta eletti.
di Michele Anselmi
Il partito non è più quello di una volta. Anzi, il Partito, con la p maiuscola. Lontani gli anni in cui i parlamentari del Pci versavano un terzo dello stipendio alle Botteghe oscure. Così almeno assicuravano i deputati e l’Unità menava vanto. Oggi vigono, nel Pd, regole meno draconiane. Intervistato da Lilli Gruber su La7, il deputato capolista Enrico Letta ha confessato di staccare ogni mese un assegno di 1.500 euro: tanto devolve al partito. La cifra, pur esibita da Letta con un certo orgoglio, è parsa in realtà piuttosto bassa, almeno rispetto alla “vulgata” che resiste nel ricordo dei militanti di sezione.
Possibile che, rispetto a uno stipendio medio netto che si aggira tra i 12 e i 13 mila euro - considerando indennità, voci accessorie e tutto il resto - Letta e i suoi colleghi diano al Pd così poco? Possibile.
LA CONFERMA DI AMATI. La conferma viene dalla senatrice marchigiana uscente Silvana Amati, entrata a Palazzo Madama nel 2006, oggi al terzo posto in lista, quindi con buone se non ottime possibilità di essere rieletta. Anche lei, allarmata dagli ultimi sondaggi ufficiosi, teme «un Grillo sopra il 20%», ma questo è un altro discorso.
Amati, classe 1947, già docente universitaria di istologia, presidente del Consiglio regionale marchigiano e membro della segretaria nazionale ai tempi di Piero Fassino, conferma: «La quota è di 1.500 euro al mese, esattamente come dice Letta. Questo per quanto riguarda il partito centrale». E poi? «A seconda delle realtà territoriali, il parlamentare è tenuto a versare altre quote. Io, per esempio, do mensilmente altri 200 euro al Comitato regionale. Alcuni colleghi anche alle federazioni provinciali».
QUOTA RIMODULATA E SCARICABILE. Insomma, comunque si guardi alla questione, anche dopo i tagli recenti su vitalizi e giustificazioni spese rispetto alla legge del 1965 che equiparava gli stipendi dei parlamentari a quelli dei giudici di Corte d’appello (terzo livello), il sacrificio economico non sembra così soffocante, proibitivo. Lo riconosce francamente la stessa Amati, pur spiegando che la cifra - appunto quei 1.500 euro - è stato definita con la nascita del Pd. Prima, con i Ds, le cose andavano diversamente, ed è curioso: perché i parlamentari della Margherita, cioè gli ex democristiani, versavano appena 500 euro al mese, mentre quelli di provenienza Pds, diciamo ex comunista, circa 2.300. «Il nuovo partito non aveva i debiti del vecchio, così s’è deciso di rimodulare la quota nazionale» avverte la senatrice.
Ben inteso, una parte di quei 1.500 euro versati ogni mese sono “scaricabili” dalle tasse, per circa il 19%.
IL GETTONE DI INGRESSO PER POSIZIONI TOP. Resta invece, e qui la faccenda si fa più dolorosa, la storia del gettone di ingresso, chiesto dal Pd (pure dal Pdl) ai candidati in posizioni alte. Per l’esattezza ai primi sei nella lista al Senato e ai primi nove della Camera. «Quasi un balzello, un pegno da pagare perché tanto quei soldi, a spese dei contribuenti, rientreranno attraverso lo stipendio», ha raccontato Il Fatto Quotidiano. La differenza della pratica bipartisan starebbe solo nelle cifre: il Pd chiede mediamente 35 mila euro, il Pdl 25 mila. Cambiano i modi di pagamento: i berluscones pretendono che la somma sia cash e anticipata per intero; il partito di Bersani offre invece la possibilità di rateizzare la cifra nel corso dei cinque anni.
Anche su questa voce sentiamo il parare di Silvana Amati. «Paga solo chi si trova in cima alla lista e quindi ha buone chance di essere eletto» rivela la senatrice del Pd. La quale ricorda che la pratica è in voga dal 2006, pur variando da regione a regione. Nel caso marchigiano, lei versò 20 mila euro nel 2006 e 40 mila nel 2008.
QUOTA DILUITA NEI CINQUE ANNI DI LEGISLATURA. E adesso, in vista delle elezioni del 24 e 25 febbraio? «La cifra, a fondo perduto, è di 30 mila euro. Naturalmente ho deciso di tirar fuori di tasca mia, senza chiedere prestiti in banca, ma rateizzando».
Un sistema che è diventato ormai una tradizione. «Diamo una mano al partito sin dai tempi del Pci», ha raccontato Andrea De Maria, candidato alla Camera dopo aver sbancato alle “primarie” bolognesi raccogliendo oltre 10 mila preferenze. «Qui in Emilia Romagna la somma richiesta è 35 mila euro, da versare nei cinque anni di legislatura con un prelievo dalle indennità da parlamentari. Non c’è niente di male» aggiunge.
S’intende, che nel Pd è stato concesso uno strappo alla regola, cioè uno sconto, ai candidati più giovani e con meno disponibilità economiche.
Giovedì, 21 Febbraio 2013

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