Il processo a Beate Zschäpe, unica
superstite del gruppo neonazista, monopolizza l'attenzione dei tedeschi. Ma il
principale imputato dovrebbe essere il pregiudizio che ha coperto gli
assassini.
Thomas Schmid maggio
2013 DIE WELT Berlino
Il processo iniziato
a Monaco il 6 maggio e subito sospeso su richiesta della difesa non è il
processo all’Nsu, il gruppo Nationalsozialistischer Untergrund. Non più di
quanto il processo di Norimberga del 1945-46 o il processo di Auschwitz a
Francoforte dal 1963 al 1965 furono processi al nazismo, e non più di quanto il
processo di Stammheim (1975-77) fu un processo alla Raf.
Ogni volta, infatti,
si è trattato – e così pure è ancora oggi – di giudicare i singoli accusati,
nazisti e terroristi di destra e di sinistra. Quello di Monaco sarà dunque il
processo a Beate Zschäpe e altri neonazisti. Niente di più, niente di meno. Un
tribunale ha le competenze e il dovere di determinare le responsabilità
individuali e di punire i colpevoli. Non è autorizzato a esprimere giudizi su
un’epoca o un’ideologia, né sul radicamento di quest’ultima tra la popolazione.
Tutto ciò potrà
deludere qualcuno. Infatti gli imputati sono individui insoddisfatti,
scombussolati, cocciuti. Non sono sconcertanti o mostruosi, ma meschini. Se li
si guarda dritto negli occhi, non vi si vede il male o i loro moventi.
È per questo motivo
che il clamore destato dal processo di Monaco ben prima del
suo inizio era un po’ esagerato. Questo processo, infatti, sembra
già superfluo, e non permetterà di far luce su ciò che almeno una parte
dell’opinione pubblica pare attendere con impazienza. Esso attribuisce in modo
quasi inevitabile all’accusato principale una personalità interessante ed
enigmatica che palesemente non ha – da quel che si sa e malgrado il suo
silenzio. Ancora una volta, il male è solo banale. Ma ci si rifiuta di
accettarlo.
È così che l’opinione
pubblica, per quanto sia attenta, rischia di non vedere il vero scandalo: il
numero di anni occorsi per capire e spiegare gli omicidi dell’Nsu, quando la
loro motivazione era chiara ed evidente, come è facile dedurre ora a
posteriori.
Dal 2000 al 2006 la
Germania è stata tempestata di omicidi. Tante persone sono state assassinate
per il solo fatto di essere di origini straniere o ex immigrati. Le motivazioni
razziste di questi omicidi oggi saltano agli occhi. Oggi sappiamo ciò che
avrebbe dovuto essere chiaro dopo il secondo omicidio, al più tardi dopo il
terzo. Oggi sappiamo in quale direzione orientare le indagini: verso gli
ambienti dell’estrema destra.
Invece i servizi
incaricati delle indagini si sono ostinatamente attardati su un’altra pista.
Certo, avevano trovato un collegamento tra i nove omicidi in questione, ma tale
collegamento aveva gettato discredito sulle vittime, senza alcuna
giustificazione, e li aveva addirittura paragonati a delinquenti. Se sono tutti
stranieri o di origini straniere – si è ipotizzato – ci sono forti probabilità
che si tratti di criminali.
Ancora una volta,
quindi, il fatto che si trattasse invece di un’azione di ostracismo delirante
salta agli occhi soltanto a posteriori: le vittime sono state considerate su un
piano distinto rispetto ai tedeschi di origine tedesca che, loro sì, sono ben
integrati e non bazzicano con i criminali. Il fatto che sette delle nove
persone assassinate fossero imprenditori non è stato interpretato come il segno
tangibile della riuscita di quegli immigrati che avevano avuto il coraggio di
mettersi in gioco, ma soltanto come un indizio che si trattasse necessariamente
di affari loschi e che tutti fossero vittime di regolamenti di conti
all’interno della comunità turca.
Omicidi kebab
I neologismi
inventati per quegli avvenimenti – "Döner-Morde", letteralmente “omicidi
kebab”, o "commissione ‘Bosforo’” per indicare la commissione d’inchiesta
incaricata – parlano da soli, con le loro allusioni offensive e diffamanti.
Questa ignoranza della realtà, i fallimenti delle indagini, la stravagante
scomparsa dei documenti e lo smacco dell’Ufficio per la protezione della
costituzione, specialmente in Turingia, purtroppo hanno permesso alla serie di
omicidi di proseguire.
Il presidente del
tribunale di Monaco ha la sua parte di responsabilità nel discredito
della giustizia tedesca. Non ha afferrato la mano che gli aveva teso
la corte costituzionale proponendo di autorizzare tre posti in più nell’aula
delle udienze per i giornalisti turchi. E cercando di tenere ancora una volta
alla larga i giornalisti esperti di questioni giudiziarie, ha dimostrato di non
aver capito l’importanza di questo processo. Una volta di troppo.
Nessun altro paese al
mondo si è dovuto confrontare in modo così sistematico e spontaneo con il suo
pesante passato criminale. Lo si deve a funzionari instancabili, per esempio
l’ex procuratore generale Fritz Bauer, un ebreo tornato a vivere in Germania,
senza il quale il processo di Auschwitz a Francoforte non avrebbe avuto luogo.
Il merito di tutto ciò va anche a un’opinione pubblica che ha il coraggio di
dialogare e che, anche se in ritardo, ha fatto del nazismo un passato che non
può e non deve essere tenuto nascosto.
Tuttavia, questa
consapevolezza del passato, questa autocritica, non hanno evitato che la
giustizia e i media conservassero per anni i loro pregiudizi, e che si
trascurasse l’evidenza dei fatti su questi omicidi. Non è mai facile coniugare
al presente le lezioni del passato. (Traduzione di Anna Bissanti)
Ritratto
Beate
Zschäpe, la terrorista della porta accanto
Beate Zschäpe non è solo una dei
fondatori dell'Nsu, ma anche il volto del gruppo terrorista, scrive Der Spiegel.
Zschäpe è imputata di diversi crimini commessi tra il 2000 e il 2007, tra cui
nove omicidi di immigrati (otto turchi e un greco), l'omicidio di una
poliziotta e un attentato dinamitardo a Colonia.
Zschäpe è nata a Jena nel 1975 da
madre tedesca e padre romeno, ed è stata cresciuta dalla nonna dopo essere
stata abbandonata dai genitori. Secondo lei la sua vera famiglia era composta
da Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt, i suoi due complici. "Ha avuto rapporti
sentimentali con entrambi, per poi condurre una vita criminale e
clandestina", spiega la rivista.
Negli anni novanta il trio è entrato
a far parte di Thuringer Heimatschutz (Difesa della patria turingia), la più
grande organizzazione neonazista dello stato. Oltre a imbrattare i monumenti
alle vittime del nazismo, i tre avevano affittato un garage per fabbricare
esplosivi. Il ruolo di Zschäpe era mantenere un'apparenza di normalità, scrive
Der Spiegel:
Curava la copertura del gruppo,
recitando la parte di amabile vicina, amica leale e coinquilina corretta. Con
il suo carattere aperto ed ematico ispirava fiducia. Era come se avesse un
infinito desiderio di normalità nella sua vita clandestina.
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