La Cei vede un nesso tra le interruzioni volontarie di
gravidanza e la crisi economica. E ne chiede conto alla politica.
Non è una novità che i
vescovi italiani si scaglino contro l'aborto. Se fosse solo per questo, il
messaggio della Conferenza episcopale italiana per la XXXVI Giornata per la
vita, che si terrà il prossimo 2 febbraio, non susciterebbe la nostra
attenzione. Ma nel documento emerge qualcosa di più che il semplice no
all'aborto per preservare la vita dal concepimento fino alla morte naturale
eccetera, come ormai sappiamo recitare a memoria: la Cei spende carte molto
più forti in difesa dei suoi principi etici chiedendo all'Italia «quale modello
di civiltà e quale cultura intende promuovere».
Prima carta. L'aborto sarebbe una delle cause della «emorragia di energie positive che vive il nostro Paese», perché alla «emigrazione forzata di persone - spesso giovani - dotate di preparazione e professionalità eccellenti», dobbiamo aggiungere il «mancato contributo di coloro ai quali è stato impedito di nascere».
Seconda carta. L'aborto avrebbe influenza sull'aspettativa media di vita degli italiani: «È davvero preoccupante considerare come in Italia l'aspettativa di vita media di un essere umano cali vistosamente se lo consideriamo non alla nascita, ma al concepimento». Il gioco è semplice. Invece di calcolare l'aspettativa media di vita una persona sulla base del tasso di mortalità effettivo della popolazione, si includono nel conteggio anche tutti quelli che non sono mai nati - tanti quanti il numero di aborti - la cui durata di vita è pari, ovviamente, a zero anni. La media pro capite, così, diventa molto più bassa. Il tutto per il pericolosissimo principio secondo cui l'embrione, così come il feto, è considerato "persona" e a pieno titolo deve entrare nelle statistiche.
Terza e ultima carta. A chiudere il cerchio arriva la patetica menzione del «grande desiderio di generare» dei giovani sposi (quelli non sposati non sono degni di attenzione) che resta «mortificato» anche da «una cultura diffidente verso la vita». Un desiderio che evidentemente, per la Cei, trascende la singola individualità per diventare necessità di un Paese in calo demografico.
Tra le righe ma neanche tanto. Oltre al potenziamento dello stato sociale, questa la ricetta che i vescovi propongono all'Italia per uscire dalla crisi: che le donne tornino volenti o nolenti al loro ruolo di fattrici di figli, sani oppure no, desiderati oppure no. Puri contenitori che danno al Paese le giuste risorse per combattere il difficile momento economico e alzare l'aspettativa media di vita degli individui. Un messaggio delirante, inaccettabile, antiscientifico e antistorico che non vale la pena commentare oltre. Viene da rimpiangere i tempi in cui i vescovi si appellavano solo al peccato e al delitto contro dio invece di riempirsi la bocca di dati statistici ed economici di provenienza ignota a sostegno delle loro tesi "non negoziabili" per dimostrare che dio ha forgiato i suoi paranoici veti per il bene supremo delle popolazioni.
Cecilia M. Calamani
Prima carta. L'aborto sarebbe una delle cause della «emorragia di energie positive che vive il nostro Paese», perché alla «emigrazione forzata di persone - spesso giovani - dotate di preparazione e professionalità eccellenti», dobbiamo aggiungere il «mancato contributo di coloro ai quali è stato impedito di nascere».
Seconda carta. L'aborto avrebbe influenza sull'aspettativa media di vita degli italiani: «È davvero preoccupante considerare come in Italia l'aspettativa di vita media di un essere umano cali vistosamente se lo consideriamo non alla nascita, ma al concepimento». Il gioco è semplice. Invece di calcolare l'aspettativa media di vita una persona sulla base del tasso di mortalità effettivo della popolazione, si includono nel conteggio anche tutti quelli che non sono mai nati - tanti quanti il numero di aborti - la cui durata di vita è pari, ovviamente, a zero anni. La media pro capite, così, diventa molto più bassa. Il tutto per il pericolosissimo principio secondo cui l'embrione, così come il feto, è considerato "persona" e a pieno titolo deve entrare nelle statistiche.
Terza e ultima carta. A chiudere il cerchio arriva la patetica menzione del «grande desiderio di generare» dei giovani sposi (quelli non sposati non sono degni di attenzione) che resta «mortificato» anche da «una cultura diffidente verso la vita». Un desiderio che evidentemente, per la Cei, trascende la singola individualità per diventare necessità di un Paese in calo demografico.
Tra le righe ma neanche tanto. Oltre al potenziamento dello stato sociale, questa la ricetta che i vescovi propongono all'Italia per uscire dalla crisi: che le donne tornino volenti o nolenti al loro ruolo di fattrici di figli, sani oppure no, desiderati oppure no. Puri contenitori che danno al Paese le giuste risorse per combattere il difficile momento economico e alzare l'aspettativa media di vita degli individui. Un messaggio delirante, inaccettabile, antiscientifico e antistorico che non vale la pena commentare oltre. Viene da rimpiangere i tempi in cui i vescovi si appellavano solo al peccato e al delitto contro dio invece di riempirsi la bocca di dati statistici ed economici di provenienza ignota a sostegno delle loro tesi "non negoziabili" per dimostrare che dio ha forgiato i suoi paranoici veti per il bene supremo delle popolazioni.
Cecilia M. Calamani
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