Pensare Globale e Agire Locale

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mercoledì 19 febbraio 2014

ITALIA - Governo Renzi, il ministro dell'Economia e i paletti dell'Europa

Fiscal compact. Deficit. Fisco. Il titolare di via XX Settembre rischia di partire commissariato dall'Ue.

Mercoledì, 19 Febbraio 2014 - La poltrona su cui nessuno vuole sedersi è sempre la stessa: quella del ministero dell'Economia. In teoria la più decisiva, in pratica quella che ha meno margine di manovra.
Sul nome del futuro inquilino di via XX settembre devono trovare l'accordo più voci. Il premier incaricato Matteo Renzi dovrà concordare il nome con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, trovando un politico esperto nella gestione della macchina amministrativa, ma anche dall'alto profilo economico. E apprezzato - c'è da scommetterci - anche dal governatore della Banca centrale europea Mario Draghi.
IL RICHIAMO DI REHN. L'intesa non è facile e la posta in gioco è alta: la ricetta economica con cui Renzi si presenta di fronte al Paese ma anche quella con cui il Paese si presenta all'Europa. Un vero e proprio rebus. Anche perché da Bruxelles sono già stati piantati i primi paletti.
A poche ore dalla salita al Colle del segretario democratico, il commissario Olli Rehn si era affrettato a ricordare l'europeismo dell'Italia e quindi la necessità di rispettare i Trattati. In sostanza: garantire il limite del deficit al 3% del Pil. Condizione che rischia di commissariare il ministero dal quale, non a caso, tutti stanno prendendo le distanze.
LE CONDIZIONI NON CAMBIANO. E non c'è da stupirsi se l'agenzia di rating Fitch ha subito allestito la ghigliottina sul nuovo governo, sentenziando che «avrà le stesse difficoltà di quello guidato da Letta».
«I limiti politici sono sempre gli stessi, la coalizione pure e il rigore chiesto è tale che non vale la pena metterlo in pratica», ha spiegato a Lettera43.it Erik Jones, direttore del dipartimento di Studi europei e dell'Istituto di ricerca politica della Johns Hopkins University School of Advanced International Studies (Sais).

La missione impossibile delle riforme a bilancio invariato


Il paradosso sta tutto qui. Le cifre di cui può disporre il prossimo governo sono scritte nero su bianco nel bilancio approvato a fine dicembre che prevede 47,6 miliardi di euro di investimenti nel 2014, 31,5 miliardi nel 2015 e 24,9 miliardi nel 2016, tutti in teoria già suddivisi per ministero e soppesati con le entrate per proseguire nella strada del risanamento dei conti come previsto dal Fiscal compact.
IL NODO DELLE COPERTURE. Ma l'agenda delle riforme renziane si può fare a costo zero? A marzo è prevista la definizione del Job Act e di misure di defiscalizzazione che consentano ai giovani l'ingresso nel mondo del lavoro; mentre ad aprile è attesa la riforma della Pubblica amministrazione. Entro maggio poi, giusto in tempo per il rinnovo del parlamento europeo, il premier incaricato ha promesso una mezza rivoluzione fiscale, con il taglio del costo del lavoro di 5 miliardi, riduzione dell'Irap di 10 punti e la riduzione dell'Irpef per i redditi più bassi.
IL PIANO PASSERA. Tutte idee che erano presenti anche nel documento stilato da Corrado Passera nell'estate del 2011, ma mai realizzate soprattutto per l'impossibilità di raggiungere un'intesa politica all'interno della maggioranza di larghe intese. E che ora sembra difficile possano trasformarsi in realtà senza modificare i conti finali e, per di più, tornando a crescere.
L'Italia appena rientrata dalla procedura di infrazione del deficit ha conquistato un misero più 0,1% del Prodotto interno lordo. E tutte le chance per modificare gli equilibri macroeconomici a livello continentale sembrano svanite.
LE LARGHE INTESE ALL'EUROPEA. Gli eurobond che potevano creare una reale unione fiscale e un debito comune sono completamente stati cancellati dall'agenda, e archiviati con l'accordo tra Spd e Cdu su cui si fonda il nuovo governo tedesco.
Renzi non può nemmeno scommettere su un trionfo socialista alle elezioni europee: secondo le previsioni, infatti, l'ondata di euroscetticismo è destinata a portare le larghe intese anche in Europa. In altre parole, socialisti e popolari dovranno trovare un'intesa per spartirsi i posti della Commissione europea, più di quanto non facciano già ora. Una virata a sinistra appare, dunque, improbabile.
«È come se l'Italia avesse trovato un equilibrio che però le impedisce la ripresa», ha osservato Jones. Perché «le riforme che servivano non sono state portate a termine. Ora Renzi dovrebbe realizzarle, ma ha una via obbligata: infrangere le regole europee».

«Renzi deve sforare il 3%, come ha fatto la Spagna»


In realtà il trattato di Maastricht e il trattato di Lisbona che ne è seguito prevedono che, in casi di crisi, un Paese possa sforare il tetto del rapporto del 3% tra deficit e Pil. Ma il Fiscal compact, che il 17 aprile 2012 è stato introdotto nella Costituzione italiana, impone regole molto più rigide e un abbattimento progressivo del debito al 60% del Pil. Tradotto significa una spesa nominale di circa 30 miliardi a partire dal 2016.
In più i leader Ue non sono riusciti nemmeno a trovare una vera intesa sull'unione bancaria. Ogni Stato è chiamato a creare un fondo di salvataggio autonomo. Con buona pace degli Stati più deboli, ma anche di quelli più forti che, per paura di aprire i cordoni della borsa, rischiano di esporsi all'ennesima crisi. Di fatto, l'intero continente, ed è questa la preoccupazione di Draghi, è ancora esposto ai pericoli della speculazione.
In questo scenario all'Italia non resta che giocare d'azzardo.
SULLE ORME DI MADRID. «Renzi deve fare le riforme. E quindi sforare il 3% come ha fatto la Spagna», ha aggiunto Jones. «Di fronte a Madrid, l'Ue ha reagito con una buona dose di ipocrisia perché a certi livelli, diciamo la verità, si tratta di giochi di numeri».
Il punto, però, è la credibilità del Paese di fronte ai mercati. Al segretario Pd serve quindi un ministro di spessore, «una personalità capace di ragionare politicamente, ma con proposte economiche forti».
La sfida del premier è ancora più ardua: sulle riforme Renzi punta tutto, senza peraltro avere il controllo della sua maggioranza. E nemmeno, di fatto, del suo esecutivo.
LA SOLITUDINE DEL PREMIER. «Chi adesso è pronto a spronare Renzi a fare le riforme? A fare pressione politica sui palazzi parlamentari? Il leader democratico ha dato energia al governo, ma chi la darà a lui? La verità», ha concluso l'esperto di Affari europei e conoscitore dell'Italia, «è che Renzi avrebbe bisogno di un altro Renzi. E invece sarà costretto a fare tutto da solo». Col rischio di rimanere intrappolato nel palazzo. Insomma, c'è poco da invidiarlo.
«Renzi», ha detto il 18 febbraio il capogruppo Forza Italia alla Camera Renato Brunetta, «è destinato a fare il primo ministro in condizioni tra le più difficili degli ultimi 20 anni».
E non ha tutti i torti.

Giovanna Faggionato

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