Un episodio
di violenza che ha come protagoniste due ragazze di soli 16 anni, la vittima e
la sua “picchiatrice”. Il motivo della lite fuori da scuola sotto gli occhi
divertiti e la videocamera dello smartphone dei compagni? Un presunto ex
fidanzato e una presunta love story. Una
violenza rabbiosa che ci indigna tutti come ci indignano i femminicidi, le
violenze sui disabili, le baby squillo, gli indagati in Parlamento, la mafia
che si aggira con facilità nel nostro Paese, gli scippi, i morti a Lampedusa, tutto
ormai è violenza. Ma forse prima di indignarci e così far
campare quasi tutte le televisioni di un certo tipo che usano la stessa
violenza infarcendola di particolari e minuziose rappresentazioni, dovremmo pensare a cosa è dovuta
questa ondata di efferatezza, questo stupro di valori e feroci abitudini. La
nostra cultura elevata da tutto il mondo si è trasformata in cultura di
sopraffazione, soprusi. Una cultura d'odio. Sembra che il potere sia abbinato
sempre e comunque ad una prevaricazione, un potere con mille volti e subdolo,
un potere che distrugge ogni umanesimo per produrre, vincere, apparire.
E i nostri occhi offuscati dalla nebbia di una vita omologata e distrutta da un
razzismo che evoca la figura, la forma, il successo, schiaccia come zanzare
fastidiose i vinti dalla cultura del potere. Ci indigniamo quando un assessore
si sbottona i pantaloni come tangente prima di appoggiare i diritti di persone
in difficoltà, ci indigniamo quando un Presidente Regionale paga con i
nostri soldi la camera d'albergo all'amante e dopo l'indignazione non
sappiamo far altro che ripiegare il capo pensando a come pagare le nostre
bollette. Questa cultura
ci ha distrutto dentro, ci ha staccato gli occhi dall'anima, ci fa vivere da
dissociati una vita parallela, in cui la causa della nostra indignazione non si
intreccia mai con qualcosa per cui questi delitti laici non esistano. La
repressione delle nostre identità ci ha portato a defilarci nel branco.
Quello che guarda, che filma, che incita. Siamo stati ipnotizzati dai segni del
potere e da il modo in cui questi abbiano dato un senso al nostro egoismo, alla
nostra povertà di uomini. Bollati dalla discriminazione di un potere a
cui abbiamo offerto il nostro Regno in cambio di esserne spettatori. Noi
guardiamo e non agiamo, guardiamo e carichiamo una lavatrice, guardiamo e
rimaniamo assenti nella nostra impotenza serva di questa pseudo-cultura. Il livello della nostra Nazione è
l'orrido che ci passa lentamente davanti ai nostri sogni infierendo su di loro
come coltelli da macellai. C'è il reato di vilipendio al capo di Stato ma non c'è il
reato contro l'immoralità. C'è il reato per apologia fascista ma tutti possono
mandare teste di maiali nelle sinagoghe. Allora qualcosa di
squallido ha permeato la nostra vita senza che ce ne accorgessimo o ancor più
grave, permettendolo. Quella
ragazza che ha preso a calci la sua coetanea è il frutto che abbiamo cresciuto
nel grembo , testimone della nostra ipocrisia, della nostra tolleranza, della
nostra pochezza. Tutti siamo mostri in una società che fa finta di non vederci,
di annusarci, che invece di anteporre una carità che non ha padroni, né chiese,
né profeti sembra sia estinta e non trova simbiosi se non nell'irriderti
nelle case finte con famiglie finte. Sono riusciti a renderci
figurine da scambio, in cui non riusciamo a identificare chi è l'assassino dal
prete, il fascista dal democristiano, una puttana da una suora. Bastava solo
fermarsi un attimo, perché ciò non accadesse ma la nostra codardia ha avuto la
meglio sulla verità e sulla bellezza. Dostoevskij, nei fratelli Karamazov
sviluppa attorno alle vicende dei membri della famiglia Karamazov, al
contesto in cui matura l'assassinio di Fëdor, il capofamiglia e al conseguente
processo nei confronti di Dmitrij, il figlio primogenito accusato di parricidio
e ad un livello più profondo il dramma spirituale scaturito dal conflitto
morale tra fede, dubbio, ragione e libero arbitrio. "Improvvisamente lo starec
Zosima si alza e si prostra dinanzi a Dmitrij; in seguito rivelerà ad Aleksej
di averlo fatto perché aveva compreso che il giovane avrebbe dovuto affrontare
un grande sacrificio", così scriveva nel 1879
Dostoevskij grande profeta di una realtà che ci inchioda tutti alle
nostre responsabilità. Il
dubbio di essere noi a doverci inginocchiare davanti a ragazzi che
non hanno trovato la nostra mano per aiutarli a rialzarsi, le nostre parole e
la nostra pazienza che ci avrebbe distinto dai nostri occhi che continuano a
indignarsi e a cambiare programma. Pasolini diceva:
"La droga viene a riempire un vuoto causato dal desiderio di morte e che è
dovunque un vuoto di cultura" La
cultura del potere ha preso il posto al potere della cultura e noi apostoli di
un Dio che si è stancato di percorrere con noi il cammino, siamo diventati morti
di vuoto. Senza desiderare la passione e l'emozione di essere diversi.
Claudia
Pepe
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