L'ex ministro della difesa e ultra prodiano, Arturo
Parisi, ci affida a una lunga e articolata analisi sui rischi dell'abbraccio
piddì al Pse.
02 - 03 -
2014 - “In questa vicenda Renzi c’entra poco”, ammette subito l’ex ministro
della Difesa “ulivista” Arturo Parisi che ragiona a voce alta sull’ingresso
del Pd nella grande famiglia europea del Pse. Renzi, guidato
dall’ottimismo del suo volontarismo – dice Parisi – ha preferito chiudere con
un passato concluso e aprire al futuro sperando che la scelta di ieri “più che
un punto di arrivo” possa essere “un punto di partenza”.
E’ quindi un
errore l’ingresso del Pd nel Pse?
L’errore è
di sicuro il modo in cui ci si è arrivati. Tardi ma soprattutto male. Il Pd che
aderisce al Pse non è infatti il partito che sette anni fa fondammo come un
partito nuovo, come il partito che ambiva ad esportare in Europa la propria
novità, ma un partito che si arrende a ri-importare dall’Europa in Italia le
divisioni ereditate dal Novecento, le stesse che con la sua fondazione il
partito aveva dichiarato di voler
superare per aprirsi al futuro. E
ci arriva a pezzi e non invece come avrebbe dovuto arrivarci un partito unito. Non è infatti
il Pd nel suo insieme che entra nel Pse per la prima volta, ma solo quella
parte di esso che finora al Pse non aveva ancora aderito. Ad entrare
nel Pse
sono le componenti non diessine che “finalmente” si
accodano ai Ds che, sotto la guida di D’Alema nel Pse ci sono da sempre.
Dunque unito
in Italia e diviso in Europa?
Non possiamo
dimenticare che, unito in Italia, il Pd continuava infatti ad essere diviso in
Europa. Pur uniti nell’unico gruppo parlamentare socialista (e democratico),
quanto all’appartenenza partitica europea, i parlamentari che dall’Italia erano
partiti eletti nelle liste dello
stesso partito, avevano a Bruxelles
tre diverse qualifiche. Una parte, la maggioranza diessina, apparteneva
infatti da sempre al Partito Socialista Europeo oltre che al Gruppo Socialista
che del Partito era la proiezione parlamentare, e vi apparteneva in continuità
con la precedente affiliazione di partito in Italia e in Europa. Una seconda
parte sedeva invece solo nel Gruppo parlamentare socialista, ma invece
apparteneva (assieme ad altri che a Bruxelles sedevano tra i lib-dem dell’ALDE)
a quel precario Partito Democratico Europeo che era stato promosso da Bayrou
e Rutelli, con la Presidenza onoraria di Prodi, come incontro tra “i
Democratici”, prima collocati tra i liberaldemocratici dell’Eldr, e i Ppi
che in precedenza avevano fatto parte del Ppe. Altri infine erano
incaricati di rappresentare il Pd, e niente altro che il Pd, per poter
assolvere alle funzioni unitarie della componente italiana del Gruppo
Socialista.
Una
costruzione barocca?
Nell’immediato
era servita per consentire agli esponenti diessini e
in
particolare al loro “leader Massimo” per continuare a ricoprire le cariche
rivestite in precedenza a livello internazionale tra i socialisti, e, nel caso
di D’Alema, alla guida della Feps, la federazione dei pensatoi
progressisti, in rappresentanza della Fondazione Italiani Europei
proposta nei fatti in Italia e all’estero come unico centro di studi del
partito italiano all’insegna (si veda
al riguardo il sito del Pd) del “qui
lo dico, qui lo nego”, e quindi del “come puoi negarlo se non l’ho detto”.
Senza questa architettura non si sarebbe infatti riusciti a spiegare a che
titolo dirigenti nazionali del Pd sedessero a livello internazionale in organi
di partiti, ai quali il Pd non aderiva o, come minimo, non aveva ancora
aderito.
Qual è il
passo che invece andava fatto?
La natura
nuova del Partito avrebbe infatti richiesto che fino a quando il Pd, come
Partito nuovo, non avesse deciso della sua collocazione
internazionale
i dirigenti dismettessero le responsabilità prima ricoperte in rappresentanza
dei partiti passati, per poi, nel caso, approdare tutti assieme nel partito che
assieme avrebbero scelto. D’Alema sarebbe dovuto uscire dal Pse esattamente
come Rutelli dal Pde. Si preferì invece mantenere lo status quo per
consentire a D’Alema & Co di restare nel Pse evitandosi di dover uscire di
casa, visto che in quella casa si era già deciso di tornare. In cambio ci si
guardò bene dal chiedere a Rutelli, co-presidente del Pde e al tesoriere
Lusi, di lasciare le loro cariche nel Pde, perché la permanenza degli
uni era appunto funzionale alla permanenza degli altri. E questo avvenne nel
Parlamento
Europeo esattamente come in tutti gli altri consessi internazionali, dalla Assemblea
Parlamentare della Nato a quella del Consiglio di Europa, nelle quali i
rappresentanti del Pd hanno continuato in tutti questi infiniti sette anni ad
approdare divisi dopo che dall’Italia erano partiti uniti.
Questo per
il tardi. Ma perché male?
Male perché
questi sette anni infiniti sono stati consumati come si consuma il brodo per
abituare il partito a un copione già scritto come un esito inevitabile.
Nonostante il punto sia stato tenuto all’ordine del giorno anche troppo a
lungo, su di esso non si è ma aperto un vero confronto e meno che mai è stato
aperto un confronto col partito europeo. Non capendo in che cosa consistesse la
nostra novità, non si capiva quale novità avremmo potuto chiedere o offrire
agli altri.
Ecco perché si è preferito ridurre alla sua dimensione
organizzativa e procedurale una decisione che all’interno ieri è stata
chiamata storica e all’esterno salutata come definitiva scelta del campo della
sinistra. Ecco perché la decisione è apparsa scontata, e sancita dal solito
voto, unanime e allo stesso leggero, al quale le assemblee Pd ci hanno
purtroppo abituato. E’ così accaduto che la decisione di ieri e l’approdo di
oggi si è ridotto a una questione di nomi. Come se in politica i nomi fossero
parole come altre e non invece l’unico modo per dire agli altri chi siamo, e da
dove veniamo, anche se, purtroppo, non sempre dove stiamo andando.
C’è il
rischio che la foga renziana di accreditarsi in Europa possa svilire il senso
più ampio dell’operazione democratica “ulivista”?
In questa
vicenda Renzi c’entra poco. Guidato dall’ottimismo del suo volontarismo,
ha preferito chiudere con
un passato che gli è apparso concluso ed aprire al futuro sperando che la
scelta di ieri “più che un punto di arrivo” possa essere “un punto di partenza”.
Peccato che il renziano Richetti abbia letto quella che sulla bocca di
Renzi sembrava una sfida, come “la fine di un’ambizione”. Non vorrei proprio
che arrivati alla fine di un viaggio guidato dal desiderio di una casa più
grande e più nuova troppi tra iscritti e elettori pensassero di essere finiti
in una casa più piccola e più vecchia e comunque con un nome certo antico e
glorioso ma ad essi estraneo e da essi subito. Non vorrei che, privati
dell’Ulivo democratico, cogliessimo della Rosa socialista soltanto le spine, e,
perduta per strada la novità della nostra “Canzone popolare”, ci ritrovassimo
muti, senza sentire né condividere, l’antico calore del Canto dell’Internazionale.
Lei che
linea avrebbe seguito?
Di certo
l’assetto attuale non era ulteriormente conservabile. Difficile da raccontare e
perfino da ricordare. Bisognava perciò passare a una posizione che rivendicasse
la nostra novità e perciò la nostra autonomia articolata su quattro punti.
Partecipazione al gruppo di tutti i deputati Pd da indipendenti; contemporanea
uscita di tutti dai partiti precedenti; apertura di un confronto col Pse da
posizioni autonome; e nelle prossime elezioni sostegno della candidatura di
Schulz alla elezione a presidente della Commissione Ue
Francesco De Palo
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