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sabato 22 marzo 2014

ITALIA – Il processo burla a Penati e l’adesione al PSE


Se il buon giorno si vede dal mattino, lo stato reale di un Paese, la sua storia, i suoi problemi e la sua attuale situazione, si possono decifrare da certi dettagli.
E, infatti, analizzando con la lente di ingrandimento i particolari di due avvenimenti della scorsa settimana, si capisce quanto ancora l’Italia non riesca a fare i conti con il suo recente passato.

Primo:
la Cassazione ha stabilito in via definitiva di doversi applicare la prescrizione a Filippo Penati, ex presidente pd della provincia di Milano processato per tangenti.
Lo ha fatto respingendo la richiesta di Penati di volersi sottrarre alla prescrizione.
Ma era una richiesta consapevolmente tardiva.

Quando era il tempo giusto, l’esponente PD si è ben guardato dal presentarsi al processo per avanzarla validamente.
Con risvolti comici, da commedia all’italiana: il presidente del collegio giudicante che chiedeva all’avvocato difensore cosa intendesse fare il suo assistito, quest’ultimo assente e irraggiungibile telefonicamente, nonostante avesse dichiarato a destra e a manca di non volersi sottrarre al giudizio.

Il più importante processo a carico di un esponente pd, la cartina di tornasole per verificare l’assioma della “diversità” morale della sinistra comunista, ora piddina, finisce così con una burla.
Ed ognuno si tenga strette le proprie opinioni.

Da una parte la “diversità” non scalfibile, che non ammette controprove; dall’altra la sensazione (e qualcosa di più) che i processi, da tangentopoli in poi, abbiano un andamento sbilenco.
Misurabile attraverso la loro velocità (la prescrizione per Penati, le sentenze per i tre gradi di giudizio per Craxi in un solo anno) e per il rigore delle indagini: non sappiamo che fine abbiano fatto i soldi delle tangenti eventualmente riscosse da Penati (come il miliardo portato a Botteghe Oscure ai tempi dell’ Enimont); sappiamo molto di più di tutto dei soldi dati a partiti e uomini di diverso orientamento politico.

Secondo: 
il gesto politico ad oggi più importante di Matteo Renzi come segretario del PD è senza dubbio l’adesione al Partito del socialismo europeo (PSE).
E’una decisione saggia anche se tardiva.
L’anomalia dell’assenza in Italia di un partito progressista collegato con chi, nell’Unione, esprime con maggior  forza la linea del riformismo era un handicap per il Paese, non solo per il PD.

Che tutto ciò avvenga con un segretario ex DC è un paradosso che rivela tutti i limiti di chi aveva retto il partito sino ad oggi, cioè il gruppo dirigente ex PCI-PDS-DS.
Naturalmente solo la visione taumaturgica che ne hanno i suoi fedeli fa di Renzi l’artefice esclusivo della svolta.
Chi ha una semplice infarinatura di queste questioni sa bene come siano necessari lunghi tempi, spesso molti anni, per perfezionare l’adesione dei partiti alle varie famiglie internazionali.

Del resto, il congresso del PSE a Roma era stato deciso prima che Renzi scalasse la segreteria.
Ma a Renzi è giusto e doveroso chiedere di rendere convinta ed effettiva l’adesione.
Il dibattito ascoltato nella Direzione del PD che ha sancito il passo ha avuto aspetti surreali.
Salvo D’Alema e qualche altro, è sembrata una adesione “subita”, motivata con il fatto che ormai la “coloritura” socialista e socialdemocratica si è fortemente annacquata.

Così, tanto per rassicurare che né i postdemocristiani né i postcomunisti corrono il rischio di diventare socialdemocratici.
Nemmeno tre mesi fa, il comportamento di non pochi europarlamentari del PD provocò la bocciatura di una risoluzione che chiedeva che l’aborto sicuro fosse un diritto garantito all’interno degli stati membri.
Si trattava di una risoluzione presentata proprio dai socialisti.

Renzi, come presidente del consiglio e segretario PD potrà trarre grande giovamento ora che il suo partito è collegato con la grande famiglia socialista d’Europa.
Purchè nessuno pensi ad una coabitazione improntata alle solite ambiguità e furbizie all’italiana.
Nemmeno i socialisti, in Europa, le tollerano.

Nicola Cariglia

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