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mercoledì 16 aprile 2014

CINA - Socialismo in Cina, Xi Jinping: è l'unica chance per Pechino


Solo l'attuale sistema politico ha rilanciato il Paese. Perché il Pcc ha chiuso alla liberaldemocrazia. Ed è polemica.

La democrazia multipartitica ha fallito e il socialismo è l'unica via per la Cina. Parola del presidente Xi Jinping, che nel suo viaggio europeo ha rivendicato la «diversità» cinese rispetto a un sistema che l'Occidente intende spesso come valore universale e che è invece prodotto della sua storia particolare.
Al Collegio d'Europa di Bruges, in Belgio, Xi ha sostenuto che l'ex Celeste Impero deve seguire un percorso che si adatta alla propria realtà, dato che l'imitazione di sistemi politici altrui si è rivelata del tutto fallimentare nei tentativi compiuti dopo la fine della dinastia Qing (1644-1911) e l'inizio dell'era repubblicana.
SOCIALISMO, LA RETTA VIA. «Monarchia costituzionale, restaurazione imperiale, sistemi parlamentari o multipartitici e un governo presidenziale sono stati tutti promossi e sperimentati, ma nessuno ha veramente funzionato», è stata la tesi di Xi. «Infine, la Cina ha preso la via del socialismo. Ed è vero che nel processo di costruzione abbiamo avuto successi, ma anche commesso errori».
Immancabile il richiamo al «Piccolo timoniere» Deng Xiaoping che, lanciando il suo «socialismo con caratteristiche cinesi» nei primi Anni 80, ha consentito alla Cina «di trovare il proprio cammino e di raggiungere il successo».
DIMENTICATO MAO. Peccato che, così facendo, Xi abbia automaticamente escluso il 'vero' timoniere Mao Zedong.
Come interpretare la decisione? Di sicuro con il desiderio di rimuovere quelle parti del glorioso percorso socialista che ancora feriscono i cinesi: il Grande balzo in avanti e, soprattutto, la Rivoluzione culturale, sinonimo di violenza e caos.
La famosa formula per cui Mao ha agito «70% bene e 30% male», sembra essersi gradualmente attestata su un più equilibrato 60-40 nel dibattito ufficiale, almeno da quanto hanno riferito insider cinesi.
A OGNUNO IL SUO MODELLO. Nel suo discorso europeo, Xi ha anche propinato una lezione di storia condita di metafore (ormai sembra diventata una delle caratteristiche dei discorsi del presidente della Cina).
Per sottolineare che i modelli di sviluppo sono legati al territorio, ha spiegato che «il popolo cinese più di 2 mila anni fa l'ha capito da un semplice fatto e cioè che la gustosa arancia, che cresce nel Sud della Cina, diventa aspra se coltivata al Nord».
E ancora: «Il popolo cinese è appassionato di tè e i belgi amano la birra». Come dire che i due popoli rappresentano modi diversi «di intendere la vita e conoscere il mondo»: «E li trovo altrettanto gratificanti».
Anche se, ma questo Xi se guardato bene dal dirlo, in Cina c'è chi apprezza l'alcol, visto che oltre Muraglia non è così difficile imbattersi in cinesi ubriachi agli angoli delle strade.

Scontro in Rete sulla bocciatura della liberaldemocrazia


La non applicabilità della liberaldemocrazia occidentale ha però scatenato il dibattito sia in Rete sia tra gli esperti cinesi.
Da una parte c'è chi si chiede perché non sia mai stata data qualche chance al sistema multipartitico. Dall'altra ci sono quelli che non dimenticano quanti disastri siano accaduti dalla rivoluzione del 1911 e che solo dal 1949, con la presa del potere del Partito comunista cinese (Pcc), le cose hanno cominciato a filare.
Il richiamo di Xi a una peculiarità cinese - che almeno non è l'exceptionalism Usa sbandierato da Barack Obama - appare comunque legittimo. A questo punto, se la liberaldemocrazia è stata bocciata, va però verificato quale sia lo stato di salute del socialismo rivendicato da Pechino.
NEL PAESE MANCA IL WELFARE. Iniziamo dalla storia. Se per socialismo s'intende il modello di gestione socialdemocratico dell'accumulazione capitalista - libero corso al mercato e poi ridistribuzione equa della ricchezza, insomma il modello scandinavo - è evidente che nella Cina contemporanea se ne vede molto poco: non esiste un welfare e anche quello povero e collettivista (ma a suo modo efficiente) dell'epoca di Mao è stato smantellato in nome del mercato.
In compenso, nel trentennio successivo alle 'riforme e aperture' di Deng, qualcuno ha accumulato ricchezze enormi - spesso sfruttando posizioni di rendita consentite dal proprio status all'interno della nomenklatura comunista - e il livello di diseguaglianza ha superato quello degli Stati capitalisti.
ACCUMULARE E POI DIVIDERE. Per qualche osservatore, questo passaggio è stato tuttavia fondamentale per consentire alla Cina lo sviluppo delle forze produttive necessario a realizzare il vero socialismo: accumuliamo ricchezza e poi pensiamo a ridistribuire (ma come si è visto, di condivisione ce n'è poca).
Sembrerebbero per certi versi andare in questa direzione anche le riforme varate dal Terzo Plenum del Pcc a novembre 2013, nella misura in cui consistono - almeno sulla carta - in un grande trasferimento di ricchezza dall'elite di Stato ai cittadini.
LE RIFORME SONO IN DIVENIRE. Come? Utilizzando strumenti di mercato, sia inteso, perché in Cina il problema è quello di dare uguali opportunità in un sistema ancora bloccato, e creare concorrenza sostenuta da welfare. Si pensi alla libertà offerta ai contadini di vendere le proprie terre; all'incoraggiamento dato a un sistema finanziario alternativo a quello delle grandi banche (cioè più propenso a offrire credito alle piccole-medie imprese), cui si accompagna il giro di vite all'interno alle grandi imprese di Stato; al varo di un primo abbozzo del nuovo stato sociale attraverso il sistema delle assicurazioni sussidiate, in ambito sia sanitario sia pensionistico.
Tutto è, però, ancora sulla carta o in divenire. Quanto di 'socialista' ci sia, lo si scoprirà solo vedendone gli esiti.

Niente sistema multipartitico: meglio rivedere il Pcc


 

Poi, c'è il dibattito che riguarda il modello politico.
In Cina non va per la maggiore l'ipotesi di un sistema multipartitico, quanto la possibilità di riformare il Pcc e tutto l'apparato statale dal suo interno.
Così, per esempio, è stata riscoperta la 'meritocrazia' confuciana, che dovrebbe compenetrare il sistema attuale.
Uno dei modelli più interessanti di cui si parla dovrebbe funzionare più o meno così: alla base c'è una forma di democrazia - come per esempio nelle elezioni a livello di villaggio - al vertice c'è una elite illuminata, non elettiva ma selezionata in base al merito (confuciana, appunto), che recepisce di volta in volta le richieste della società. Nel mezzo? Libero spazio all'immaginazione.
MANCA L'OPPOSIZIONE AL PCC. Come fare in modo che quell'elite sia davvero 'meritocratica' e non 'cleptocratica' è forse il problema più grosso allo stato attuale.
Va però detto che in Cina, oggi, non esiste una reale opposizione politica al Pcc e i dissidenti, che perorano la causa di una liberaldemocrazia di modello Atlantico e a cui la stampa occidentale dà grande risalto - tipo il premio Nobel Liu Xiaobo - sono decisamente più conosciuti all'estero che non in patria.
NOMENKLATURA IN DECLINO. Il problema più grande riguarda però quanta credibilità abbia ormai il Pcc nell'affermare valori socialisti presso gli stessi cinesi, che in buona parte ci credono ancora.
Le narrazioni dell'epoca di Mao non funzionano più, da quella del funzionario al servizio del popolo a quella del lavoratore come vero 'padrone' della Cina, passando per il poliziotto benevolo al servizio dei cittadini.
Oggi, fioccano davanti agli occhi di tutti - e spesso direttamente sulla testa - esempi diametralmente opposti.
EMANCIPATI DAGLI STRANIERI. L'unico messaggio che ancora funziona è questo: la Cina, grazie al Pcc, non è più sottomessa alle potenze straniere. E da qui discende la sterzata nazionalista di Xi, che ricorda di continuo questa evidenza. Anche affermando la 'diversità' cinese rispetto all'Occidente. (Ernesto Corvetti)

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