Assunzioni a
termine senza freni. Formazione professionale senza formazione. Un
contratto unico che è l’ennesima forma di impiego atipico. Con il decreto
Poletti, il capo del governo Renzi ha fatto il contrario di quanto diceva
da segretario del Pd
Ci risiamo.
La politica dell’occupazione viene ricondotta, come accade da un ventennio, a
misure lavoristiche. La presunta rigidità del mercato del lavoro è ancora vista
come causa della disoccupazione. Intendiamoci, nei provvedimenti sul lavoro del
“piè veloce” Renzi ci sono cose utili e sacrosante: le riduzioni Irpef per i
dipendenti, che dovrebbero portare in busta paga le famose 80 euro al mese, le
misure per garantire alle donne il diritto alla maternità qualunque lavoro
svolgano, l’impegno a misure per incentivare la conciliazione fra tempi di
lavoro e di vita, e tanto altro. Ma è la logica complessiva e soprattutto il
contenuto delle prime poste in essere – quelle del decreto Poletti – che va da
tutt’altra parte. E non coglie l’obiettivo fondamentale: creare lavoro nuovo e
di buona qualità.
Perché le
due cose – bisognerebbe convincersene dopo anni nei quali il lavoro è divenuto
più precario e la disoccupazione è aumentata – vanno insieme. Ce lo ha detto,
da ultimo, il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco: «Il miglioramento della
competitività delle imprese passa dalla valorizzazione del capitale umano di
cui dispongono, anche in collaborazione con il sistema di istruzione e di
ricerca. Studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più
stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i
lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si
rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la
dinamica della produttività».
Se il problema
del nostro sistema industriale è la scarsa produttività e propensione
all’innovazione, se sono
queste le cause di fondo che frenano lo sviluppo e la crescita
dell’occupazione, allora continuare a rendere più facile e conveniente il
ricorso a forme di lavoro precario è un freno allo sviluppo. Ed è anche un
segnale sbagliato mandato alle imprese: continuate pure a sacrificare lo
sviluppo futuro per ottenere risparmi di brevissimo periodo. Perché la capacità
di innovazione produttiva e organizzativa richiede stabilità e investimenti di
lunga lena sulle capacità e le competenze delle persone. La cosa che sembra non
importare affatto al governo, visto che nelle misure non c’è nessun segnale di
rafforzamento della formazione permanente, nonostante l’avviso che l’Ocse ci ha
mandato con la ricerca Piaac. Uno studio molto chiaro: tra i 24 Paesi indagati
i lavoratori italiani hanno il più basso livello di competenze; e ben il 70 per
cento di loro, per capacità di leggere, scrivere e far di conto, è al di sotto
del livello 3, che per l’Ocse è il livello minimo per vivere e lavorare
dignitosamente.
Non sembra
essersene accorto il ministro Giuliano Poletti, il quale con tutta tranquillità
voleva addirittura far fuori la formazione dall’apprendistato professionalizzante.
Se non ci riuscirà è perché si è insinuato il timore che quell’apprendistato
non sarebbe stato considerato dall’Ue coerente coi fini della “Garanzia
Giovani”, dal momento che si sarebbe caratterizzato come un puro aiuto di Stato
alle imprese e non uno strumento di rafforzamento delle competenze dei
lavoratori. La “Garanzia Giovani”, un provvedimento europeo, già cofinanziata e
impostata dal governo Letta, è allo stato dei fatti l’unica misura attuabile
utile ai giovani disoccupati. Il combinato disposto dei primi provvedimenti del
governo Renzi va in direzione esattamente contraria a quella annunciata dal
Renzi segretario del Pd. Annunciando il Jobs act alla direzione del Pd, il
segretario disse che la priorità era far crescere la produttività e l’innovazione
delle nostre imprese, per portarle a competere sulle produzioni di maggior
qualità e a maggior valore aggiunto. Il suo primo decreto da capo del governo è
invece funzionale all’esatto opposto: lasciare le nostre imprese nella fascia
bassa della produzione di merci e servizi, quella appunto che compete quasi
esclusivamente sulle dinamiche di costo e sulla riduzione delle tutele dei
lavoratori. I contratti temporanei “liberalizzati” non creano più occasioni di
lavoro. Lavoce.info ha pubblicato una ricerca relativa alla Spagna, in
cui l’aumento esponenziale dei contratti temporanei ha prodotto meno giornate
di lavoro e salari più bassi. La stessa Spagna – oggi in piena deflazione e con
la disoccupazione giovanile in crescita – che qualcuno continua ad additare
come esempio “riformatore”.
E se i
contratti temporanei vengono “liberalizzati”, il famoso contratto di
inserimento a tutele crescenti, salutato con favore anche in ambienti
“liberal”, perde la qualifica di “unico”, la sola che poteva giustificare il
superamento della giusta causa sui licenziamenti nel periodo di ingresso. E
diventa un contratto tra i tanti: non una misura per ridurre la frammentazione
del mercato del lavoro, ma per rendere più flessibile i tempi indeterminati
residui.
Intanto incombe
la cosiddetta spending review, che
“revisiona” poco, ma taglia molto. Anche questa un’occasione persa, perché il
nodo che dovremmo affrontare per ridare fiato all’occupazione è un altro: come
ridare efficienza, efficacia, qualità ai servizi, a partire dalla Pubblica
amministrazione. Che è il settore dove il lavoro potrebbe crescere, dando
risposta al bisogno di salute e istruzione, ai desideri di cultura, città
vivibili e paesaggi restituiti alla loro bellezza. Su questi terreni l’Italia
ha un numero di occupati in rapporto ai cittadini molto inferiore rispetto a
tutti gli altri Paesi europei. Combattere gli sprechi ha senso se in questi
settori si reinveste e si crea nuovo lavoro. Insomma, la questione
dell’occupazione non può più essere affidata esclusivamente al mercato. Meno
che mai al mercato del lavoro. La durezza della crisi ci ha fatto dimenticare
che la crisi è venuta dopo anni di crescita senza occupazione. Porsi sul serio
il problema del lavoro vuol dire affrontare i nodi di fondo che hanno frenato
lo sviluppo del sistema produttivo. Per immaginare un ciclo virtuoso, che metta
in sintonia il lavoro col desiderio delle persone di vivere in un mondo più
pulito, più giusto, più sano.
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