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martedì 10 giugno 2014

ITALIA - Foreign fighters, chi sono e cosa vogliono i jihadisti della porta accanto


Vengono chiamati foreign fighters, ingrossano le fila dei gruppi terroristici e delle milizie in conflitti non convenzionali, come quello siriano. Il loro numero è destinato a crescere. Ecco le origini e i motivi del fenomeno analizzati da Andrea Manciulli (PD), vice presidente Commissione esteri della Camera e presidente della delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare della Nato, che in una conversazione con Michele Pierri spiega chi sono questi jihadisti e perché preoccupano l’Occidente.

Come nasce il fenomeno dei Foreign fighters? E chi sono?
Il fenomeno è nato e si è sviluppato dapprima in Francia e in Inghilterra, coinvolgendo rapidamente i figli di quarte e terze generazioni di immigrati musulmani, tradizionalmente presenti nei due Paesi. Come suggerisce il nome, che si può tradurre con “combattenti stranieri”, non sono altro che militanti europei (o ad ogni modo occidentali) che combattono all’estero tra le fila di milizie che utilizzano metodi terroristici in conflitti non convenzionali, come in Siria.

Quanto è vasto il fenomeno?
Già negli Anni ‘80 e ‘90, poi ancora nello scorso decennio, i Servizi antiterrorismo di mezza Europa documentarono con le loro indagini l’esistenza di un vasta attività di reclutamento nelle periferie delle grandi città finalizzata a “istruire” giovani mujaheddin per spedirli in zone caratterizzate da conflitti interetnici e religiosi. Si è osservata la presenza di questi ragazzi già in Afghanistan, Caucaso, Nordafrica, persino Bosnia. Ora, però, questo fenomeno sta subendo una crescita notevole purtroppo. Secondo cifre rese note nel dicembre del 2013 dalla presidenza lituana del Consiglio dell’Unione Europea, il numero dei foreign fighters che hanno lasciato l’Europa alla volta della Siria ammonterebbe a circa 2mila militanti. Un numero altissimo, che ha spinto la Nato a dedicare un capitolo alla comprensione e al contrasto di questo fenomeno.

Come avviene il reclutamento di questi combattenti?
Di solito attraverso due canali. Spesso viene effettuato nelle moschee più radicali del Vecchio Continente, grazie alla propaganda di predicatori itineranti. Oppure attraverso le carceri, dove questi ragazzi, che di solito vengono da famiglie problematiche e da un passato travagliato, vengono avvicinati in un momento di particolare sconforto o fragilità.

Cosa spinge ragazzi cresciuti in una cultura occidentale ad abbracciare il jihad, la “guerra santa” islamica?
Principalmente un forte senso di rivalsa verso le comunità che li ospitano. Da un lato sono persone diventate a tutti gli effetti di nazionalità europea, ma dall’altro riversano sull’Occidente un sentimento di insoddisfazione e frustrazione per la loro condizione sociale che non li soddisfa. Per loro diventare foreign fighters e abbracciare il fondamentalismo rappresenta un modo per provare a riscattarsi e trovare nel jihad una ragione profonda di esistenza.

Cosa si può fare per contrastare questa crescita?
La strada è quella di un migliore monitoraggio e del fare “rete” in Europa e attraverso accordi con Paesi extracomunitari. Ad esempio il nostro Paese firmerà a breve con la Turchia un accordo per contrastare congiuntamente il terrorismo e vigilare meglio sul corridoio che, passando da Ankara, porta i foreign fighters proprio in Siria.

Perché anche l’Italia dovrebbe preoccuparsi del fenomeno? (Di recente il giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco ha intervistato per La Repubblica un foreign fighter italiano, Kamal)
In primo luogo perché nonostante i numeri ridotti rispetto ad altri Paesi, non ne siamo esenti. Forse qualcuno ricorderà Giuliano, il ragazzo genovese convertito all’islam che dopo l’incontro con alcuni ceceni si unì ai ribelli siriani più estremisti di Al Nusra per combattere il regime di Bashar al Assad, perdendo la vita lo scorso anno. E poi perché la nostra è una nazione strategica per contrastare il trend, in ascesa anche per l’instabilità del Nord Africa, Libia in primis. Il nostro è uno Stato di passaggio e da quelle sponde giunge ormai un’immigrazione sempre meno controllata, nella quale è facile possano infiltrarsi elementi vicini a organizzazioni terroristiche, diretti in Europa per fare proselitismo o per realizzare attentati, come quello recente al museo ebraico di Bruxelles. Il fenomeno dei foreign fighters è parte di una vera evoluzione del terrorismo, che dopo l’aumento dei controlli a seguito dell’11 Settembre, ha cambiato pelle e abbandonato i grandi gesti, preferendo organizzarsi in franchising, in piccoli gruppi indipendenti. O peggio, adescando ragazzi, formandoli e reintroducendoli alla vita “normale” da insospettabili cittadini europei. Pronti però a colpire, come in Belgio, quando meno lo si aspetta.

Michele Pierri

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