È la cifra
che l’Italia potrebbe spendere se abbandonasse gli irraggiungibili obiettivi
imposti da Bruxelles. Oggi, invece, Renzi rischia di dover fare altre manovre
di tasse e tagli. Perché il muro tedesco è ancora indistruttibile
L’Unione
europea ha deciso di porre termine alla crisi che dura da sei anni: «Con 19
milioni di disoccupati e 124 milioni di poveri non c’era altra possibilità che
cambiare verso», ha dichiarato il neopresidente della Commissione, il
lussemburghese Claude Junker. «Abbiamo sbagliato: l’austerity è stata un
clamoroso errore», ha ammesso la Cancelliera Angela Merkel. Ieri, nella riunione
dei capi di Stato e di governo dell’Unione, è stata proprio l’inflessibile
Cancelliera tedesca a prendersi il compito dell’annuncio shock. Il fiscal
compact, il trattato che obbligava gli Stati membri dell’Ue al pareggio di
bilancio e a ridurre il debito pubblico, viene unilateralmente cancellato da
tutti i 25 Paesi che l’avevano sottoscritto. La sostenibilità delle finanze
pubbliche, finora custodita dai parametri di Maastricht, sarà garantita da una
sola nuova regola: il debito pubblico non deve aumentare. Ai Paesi della sponda
sud dell’Europa basterà fotografare lo status quo, con l’impegno solenne di non
far crescere ancora il rapporto tra debito e Pil. Sarà la Bce a garantire che
la decisione non generi ondate speculative sui mercati internazionali. Per
l’Italia il cambio di direzione dell’Unione significa molto: il nostro Paese
potrà investire, quest’anno, ben 34 miliardi di euro prima destinati alla
riduzione del debito pubblico. La quota di risorse da iniettare nell’economia
salirà ogni anno, fino ai 77 miliardi del 2018. Il governo Renzi sta preparando
un piano triennale per l’occupazione, diviso in tre parti: un terzo sarà
investito nella riduzione delle tasse, (il bonus di 80 euro diventerà subito di
120 euro e salirà a 200 nel 2016); un terzo sarà impegnato in investimenti per
infrastrutture, scuola e ricerca, cura del territorio, mobilità sostenibile; un
terzo sarà impegnato sul welfare (in particolare è previsto un aumento del 40
per cento delle pensioni minime e il reddito minimo garantito per giovani e
precari di lunga durata). Si stima che nuovi consumi e investimenti produrranno
da qui alla fine del 2018 una crescita cumulata del Pil di 8 punti maggiore
rispetto a quella stimata e una riduzione della disoccupazione da tre a due
milioni di cittadini.
Bene,
buongiorno, ben svegliati. Era solo un
sogno. Come uno di quegli spot – “dell’Europa si deve parlare” – che ci
raccontano senza sosta quale densità di valori e speranze contenesse
l’ambizioso e visionario progetto di unire Paesi tanto diversi sotto un’unica
bandiera, con una moneta e istituzioni comuni. La realtà, purtroppo, è molto
diversa. Ma le cifre sono quasi tutte vere. Provengono da uno studio di
Riccardo Realfonzo, ordinario di Economia all’università del Sannio, uno tra i
promotori di un referendum contro il fiscal compact su cui è da poco iniziata
la raccolta di firme (ne parliamo approfonditamente nelle pagine seguenti).
L’economista, uno dei più attivi tra gli studiosi che da anni si battono contro
l’austerità europea, ha realizzato sul sito www.economiaepolitica.it una
stima delle risorse che si libererebbero se l’Italia potesse abbandonare la
fatica di Sisifo della riduzione del debito pubblico imposta dai trattati
europei: 26 miliardi nel 2015, 52 miliardi nel 2016, per poi salire fino a 64
miliardi nel 2017 e 77 nel 2018. Risorse con cui l’Italia potrebbe cambiare
completamente il suo volto: ridurre la disoccupazione, dare finalmente slancio
alla riconversione verde dell’economia, colpire drasticamente povertà ed
esclusione sociale. Fare, cioè, tutto ciò che, negli ultimi otto anni, è stato
impossibile, per ognuno dei governi che si sono avvicendati. Risorse che
l’Italia potrebbe spendere senza far crescere il suo debito, salito dal 105 al
134 per cento del Pil proprio durante gli anni dell’austerity.
La
conseguenza di investimenti così ampi, secondo Realfonzo, potrebbe
paradossalmente essere una riduzione del debito stesso. Poiché ogni euro
impiegato in minori tasse o in maggiore spesa pubblica produce una crescita del
Pil superiore a un euro, come ha ammesso lo stesso capo economista del Fondo
monetario internazionale, Olivier Blanchard. L’unico ad avere fatto davvero mea
culpa per i propri errori di calcolo, affermando con colpevole ritardo ciò che
a chiunque cittadino ignorante di economia parrebbe un’ovvietà: l’austerità
rende il Paese più povero, non più ricco. In sintesi: provare a ridurre il
debito fa ridurre il Pil, e quindi fa crescere l’incidenza del debito pubblico
(oltre a provocare disoccupazione e povertà). Al contrario, spendere risorse a
debito fa crescere il Pil e dunque riduce l’incidenza del debito stesso.
Lo studio
Quello di
Realfonzo non è un esercizio di stile per economisti, né una controproposta
rivoluzionaria e irrealizzabile. Perché l’analisi dello studioso parte da dati
reali. In particolare da un presupposto molto preoccupante. Per garantire il
rispetto dei parametri del fiscal compact, cioè la riduzione del debito
pubblico al ritmo di circa 3 punti di Pil ogni anno, il governo sarà costretto
a collezionare avanzi primari (al netto degli interessi sul debito) sempre
crescenti. Cioè a incamerare dalle tasse più di quanto viene poi speso. Secondo
il Def varato ad aprile dal governo Renzi, già nel 2013 gli italiani hanno
pagato 34 miliardi in più di quanto lo Stato ha speso. Una quota destinata a
salire ancora, fino al 5 per cento del Pil, oltre 90 miliardi, nel 2018. E
questo, solo se le previsioni del governo sulla crescita economica
dell’esecutivo si riveleranno vere. Ma tutto lascia credere, purtroppo, che anche
l’espertissimo ministro Padoan abbia peccato, come tutti i suoi predecessori,
di ottimismo immaginando una crescita reale del Pil superiore a un punto e
mezzo a partire dal 2015. Anche la crescita dello 0,8 per cento del Pil,
stimata ad aprile per il 2014, è già stata rivista a ribasso nelle stime della
commissione Ue (+0,6). E i risultati veri, incontrovertibili, certificati
all’Istat fanno temere che il risultato finale sarà ancor più basso: il -0,1
per cento del primo trimestre dell’anno ha sentito subito i furori di riscossa
del governo dei quarantenni. Molti economisti ammettono a denti stretti che
l’anno potrebbe chiudersi, nella migliore delle ipotesi, con una crescita
dimezzata rispetto alle stime dell’esecutivo.
Stagnazione
e deflazione
Ad aggravare
la situazione c’è l’andamento dell’inflazione. Com’è ovvio, chi ha un debito –
come lo ha, e molto grande, l’Italia – ha tutto da guadagnare da un aumento dei
prezzi. L’inflazione, infatti, riduce i tassi di interesse reali, e rende più
facile pagare i creditori. Purtroppo in Europa i prezzi sono fermi, si rischia
quella che gli economisti chiamano deflazione. L’Istat ha certificato questo
scenario: a giugno ha calcolato un aumento dei prezzi dello 0,3 per cento
sull’anno precedente e dello 0,1 su base mensile. La Bce di Marco Draghi ha
annunciato misure per far salire l’inflazione, ma il sabotaggio dei falchi
della Bundesbank frena anche il più importante rappresentante italiano nelle
istituzioni europee.
Il
risultato? Se le cose continueranno così, il governo Renzi sarà costretto ad
ammettere il fallimento dei suoi obiettivi di finanza pubblica e, volendo
rispettare i trattati, dovrà annunciare una nuova manovra. Inutile sperare che
le cosiddette riforme strutturali possano far cambiare in tempi brevi segno al
Pil. La spending review, le privatizzazioni, la riforma della pubblica
amministrazione e la liberalizzazione dei contratti a termine difficilmente
avranno effetti positivi sulla crescita. Lo studio di Realfonzo, che riprende
dati dell’Ocse, dimostra che non esiste alcuna relazione tra il grado di
flessibilità del mercato del lavoro e l’andamento della disoccupazione. Ed è
impossibile, spiega l’economista, immaginare una crescita reale del Pil che
arrivi al 2 per cento nel quadro della spending review (50 miliardi di tagli
alla spesa pubblica in 3 anni). D’altronde, la spesa dello Stato si è ridotta
come quota del Pil del 6 per cento dal 1990 a oggi.
La via,
insomma, è stretta e piena di insidie. La bassa crescita potrebbe costringere
il governo, già a ottobre, a una mini manovra per restare sotto il parametro
del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil. Poi, nel 2015, si aprirà la partita
del fiscal compact: per ridurre il debito senza ulteriori manovre la somma tra
crescita economica e inflazione dovrebbe essere superiore al 3 per cento, un
obiettivo che ora sembra irraggiungibile. Per rispettare i trattati servirebbe
un’ulteriore manovra da oltre 10 miliardi. «Con questi livelli di crescita e
inflazione non c’è alcuna possibilità di rispettare il fiscal compact», afferma
Stefano Fantacone, del Centro Europa ricerche. «Ma la vera soluzione, cioè una
modifica dei trattati, per ora non è politicamente raggiungibile. Il governo
oggi non può far altro che sfruttare tutti i margini di flessibilità possibili».
Insomma, se
questo scenario, come tutto lascia credere, dovesse realizzarsi, il giovane
rottamatore sarebbe costretto suo malgrado a diventare la copia sbiadita del
tecnocrate Mario Monti. Ancora tagli e nuove tasse per inseguire la chimera
dell’Europa.
Merkel vince
ancora
Un finale
che il premier vuole evitare a tutti i costi. E per farlo l’unica speranza è
vincere la partita diplomatica che ha aperto a Bruxelles. Le condizioni
ambientali sono tutte a suo favore. Renzi è diventato presidente di turno
dell’Unione sull’onda di una vittoria elettorale senza precedenti. E vuole far
pesare ognuno dei suoi 11 milioni di voti, in una congiuntura in cui tutti i
partiti di governo hanno raccolto dalle urne solo dolori. Il primo tempo di
questa partita, quella giocata a Bruxelles, non ha riservato sorprese: come
sempre ha vinto la Germania. Renzi s’è dovuto accontentare di un documento che
afferma, a parole, l’introduzione di “elementi di flessibilità” nella gestione
dei conti pubblici, specificando però: «Insita nelle norme esistenti del Patto
di stabilità e di crescita». Renzi, infatti, aveva due obiettivi: scorporare
dal calcolo del deficit la quota di cofinanziamento nazionale ai fondi
strutturali europei (circa 5 miliardi) e una parte delle spese in investimenti,
a partire dalle infrastrutture. Ma i trattati non prevedono nulla di tutto ciò.
Al massimo, ricorda un documento tecnico del Partito socialista europeo,
l’Italia potrebbe chiedere di rimandare di un anno il cosiddetto obiettivo di
medio termine, cioè il pareggio di bilancio strutturale, ma solo in caso di un
«large negative output gap», di un ampio divario negativo. Non a caso, ammette
il Pse, parlare di flessibilità “all’interno” dei trattati, non basterà a far
cambiare segno all’Europa. Bisognerebbe ampliare la «flessibilità» anche ai
casi di «bassa crescita» e «lasciare la porta aperta a una revisione delle
regole fiscali», prevedendo l’introduzione anche degli eurobond, cioè titoli di
debito garantiti dall’Unione.
La Merkel,
invece, esce vincitrice dal vertice. In un documento quasi ignorato dai
giornali italiani, il Consiglio europeo, «alla luce dell’emergere di uno scarto
rispetto ai requisiti del patto di stabilità e crescita», chiede di anticipare
di un anno il pareggio di bilancio, che il Def di aprile aveva rimandato dal
2014 al 2015. La linea del dialogo con Angela Merkel, insomma, finora non ha
pagato. Le sfuriate riservate all’Italia dai falchi della Bundesbank, a cui la
Cancelliera ha risposto dando fiducia al governo italiano, sembrano un vecchio
film americano: i tedeschi giocano al poliziotto cattivo e a quello buono. Il
nostro titolare dell’economia Padoan è giunto fino al punto di firmare, insieme
al potente ministro delle finanze tedesco Scheuble, un articolo sul Wall
street journal, per ripetere lo stesso ritornello: i trattati non si
cambiano. La strategia, per ora, è cercare soluzioni all’enigma dei conti nei
meandri delle regole europee. Sperando anche in una modifica dei criteri di
calcolo del debito da parte della Commissione. Ma se Renzi e Padoan dovessero
trovare la strada sbarrata, non resterebbe altro che tentare il tutto per
tutto, chiedendo a voce alta una modifica dei trattati. E in questo caso,
l’ipotesi di un referendum sul recepimento nelle leggi italiane del fiscal compact,
potrebbe spiazzare la massiccia diplomazia di Bruxelles e Berlino.
Manuele Bonaccorsi
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